lunedì 29 aprile 2013

Diego Galdino
Il primo caffè del mattino
Sperling & Kupfer 2013

Accompagnato dalla disapprovazione delle mie colleghe mi sono portato a casa questo libro. Perché lo fai? mi hanno chiesto preoccupate e io, che volevo solo leggere qualcosa di leggero, anche un po' romantico, e mi divertiva il fatto che fosse ambientato a Roma, da dove manco da troppo tempo, alla fine mi sono giustificato dicendo la cosa più stupida: se ne parla su Twitter...
Il che era anche vero, e mi serva da lezione.
Ho capito subito che l'impresa sarebbe stata dura, ma avevo dalla mia una ferma determinazione a portare a termine l'impresa ad ogni costo pur di potermi presentare dalle colleghe e dire trionfante: devo dire che non è per niente male! e guadagnarmi così un po' di rispetto dopo una serie di letture che, lo ammetto, hanno minato la mia credibilità di libraio (ho letto un Newton e un Salani, e non aggiungo altro).
Avrei chiuso un occhio su tutto, lo ripeto, ma a pagina 90 è successo qualcosa di irreparabile che mi ha costretto a mettere da parte l'indulgenza e prendere in mano la frusta.
"Ma un rumore lo avvertì che qualcuno stava entrando nel bar, qualcuno con due occhi verdi che non gli bastavano mai, e siccome l'amore ha l'amore come solo argomento, Massimo si dimenticò della domanda che stava per fare..."
Copiare De Andrè. Plagiare De Andrè. Non si può. Non si fa. Che poi non sapremo mai se quel verso è di De Andrè o di Fossati, ma questo è un altro discorso. E allora veniamo a noi.
La prima cosa evidente è che non c'è alcun tentativo di definizione dei personaggi né dal punto di vista psicologico né tantomeno fisico. Tutto quello che sappiamo di Genevieve, la protagonista femminile, è che ha capelli biondi, lentiggini e onnipresenti occhi verdi (ogni volta che entra in scena ci viene ricordato il loro colore). Del protagonista maschile non sappiamo niente, solo che è "belloccio come pochi" (definizione della sorella, p. 19). Proseguendo nella lettura Massimo, questo il suo nome, diventa veramente indecifrabile. Tralasciamo il fatto che sul retro di copertina sia definito "scapestrato" senza alcun riscontro nel racconto; quello che fa e che dice lo qualificano irrimediabilmente come il classico timido impacciato, imbranato con le donne ma "uomo da sposare" (sempre definizione della sorella). Se non fosse che a metà del libro veniamo a sapere che "Massimo era un uomo di mondo e aveva la sua esperienza" (p. 146). Un uomo di mondo? Uno che lavora dalla mattina alla sera e per rilassarsi prima di andare a letto... guarda la televisione? Sarà... Fatto sta che con due righe l'autore pensa di ricostruire il personaggio e rendere credibile la notte d'amore che i protagonisti passano sulla terrazza del palazzo (sul cemento). Ovviamente non basta.
I personaggi di contorno sono praticamente solo nomi associati a un mestiere: Gino il macellaio, ad esempio. Fortunatamente il vezzo di mettere tra parentesi il caffè preferito da ognuno viene presto abbandonato; forse nelle intenzioni dell'autore dovrebbe servire per definire meglio il carattere degli avventori, ma visto che di carattere proprio non si può parlare...
La vicenda si svolge a Roma, per la precisione nella piazza di Santa Maria in Trastevere. I protagonisti si allontanano raramente e quelle poche volte sembra stiano seguendo un itinerario del Touring: Fontana di Trevi, l'isola Tiberina... I personaggi secondari devono necessariamente far sentire qualche accenno di romanesco ma l'effetto è piuttosto forzato, come quando qualcuno che parla abitualmente in italiano usa qualche espressione dialettale per darsi un tono. Pensandoci bene: Lino, Alfredo, Gino, Rina, Antonio, Franco... Ma siamo a Roma o a Milano? E poi che razza di lavori: l'idraulico, il falegname, la sarta, la fioraria, il pasticcere... Al confronto la Parigi di Ameliè sembra uscita da un servizio di Santoro.
Insomma, per sintetizzare, in questo romanzo non c'è una cosa che sia riuscita. Personaggi stereotipati e dai nomi banali; nessuno che faccia nulla se non fare e bere caffé nell'unico bar di Trastevere chiuso la domenica (ma quando mai?); nessuna volontà di descrivere personaggi o situazioni rifugiandosi piuttosto nell'evocazione di emozioni e ricordi del lettore garantita dal ricorso a canzoni, film e libri. Dialoghi perlopiù inconcludenti, con abissi di imbarazzante vaquità nella sequenza della lettura del diario. Stendiamo un velo pietoso sulla trama.
E complimenti a Catena Fiorello che con la sua fascetta ci toglie il dubbio se sia il caso di leggere i suoi libri.
Ho notato che molti scrittori si rifanno alla loro esperienza professionale per scrivere il loro romanzo d'esordio ma troppo spesso si dimenticano che scrivere significa avere una storia da raccontare, e sarebbe già qualcosa, e poi saperla raccontare, che è tutto un altro paio di maniche.
Dimmi che caffè bevi e ti dirò chi sei? Mi dispiace, la letteratura, come la realtà, è molto più complicata.

PS. Se qualcuno alla Sperling avesse letto il libro forse avrebbe scelto un titolo diverso e si sarebbe evitata una frase come questa nel risvolto di copertina: "Ogni mattina, all'alba, [Massimo] attraversa le vie della città ancora addormentate, dove si sente il profumo del pane appena sfornato, e raggiunge il suo bar. Lì lo aspetta il primo caffè della giornata, quello dall'aroma più intenso, e dal sapore più buono..."; come dice più volte l'autore per bocca del suo protagonista, il primo caffè della giornata si butta, per tradizione. E poi tutti sanno che il primo caffè non è mai troppo buono, un po' come i libri.

martedì 2 aprile 2013

Contro le fascette

Da quando frequento il reparto di narrativa sono diventato ancora più insofferente nei confronti delle fascette. Nella libreria precedente avevo a che fare con libri di saggistica e bene o male la fascetta era limitata. La trovavi quasi solamente sui libri di giornalisti famosi e la trattavi come un ospite indesiderato: sopportavi finché non ne potevi più, e allora la facevi sparire. Una mia ex collega strappava fascette come certe persone fanno scoppiare le palline di cellophan, in modo automatico e quasi compulsivo. Ricordo che alla fine dell'inventario sul pavimento rimanevano i cadaveri di tutte le fascette che si erano trovate involontariamente fra il lettore ottico e il codice a barre del libro. Ho sempre considerato la fascetta come un semplice ostacolo al mio lavoro, mai come veicolo di informazione.
La fascetta, come detto, si piazza sempre sul codice a barre, come se ne fosse attratta da una calamita. Voi direte: vabbè, basta spostarla un po'... Sì, se fosse per un libro. Ma quando devi fare una resa, magari pesante, di quelle che si fanno adesso, e devi spostare un po' la fascetta di quattro o cinquecento libri, capisci che un po' ti prudono anche le mani. Come se non bastasse ci sono editori che pensano che il vero valore del libro non sia quello espresso in euro, parlano del contenuto, del valore intrinseco... e per sottolineare questa loro lontananza dal vile denaro stampano il prezzo del libro nel risvolto interno della sovracopertina. Già questo è fastidioso per il libraio che deve caricare i libri e controllare il prezzo; diventa imbarazzante quando, davanti a certi clienti che non vedono il prezzo dove si aspettano che sia, il libraio è costretto a mostrare loro quanto siano inadatti al mondo contemporaneo e globalizzato semplicemente aprendo il libro. La fascetta, in questi casi, è il colpo di grazia.
Come detto, da un po' di tempo a questa parte le fascette sono così tante che toglierle è diventato un lavoro sfiancante. L'altro giorno osservavo lo scaffale dei romanzi Garzanti: tutti, dico, tutti con una fascetta gialla. Sembrava di guardare lo scaffale di una biblioteca, con le etichette in costa per la segnatura. Poi, quando escono le novità, capita anche di leggere cosa ci scrivono sopra. Ecco: la fascetta è una zona franca, dove poter dire quello che si vuole, dove chiunque può spararla grossa tanto si sa che è una fascetta e nessuno ci crede.

cvc