mercoledì 29 dicembre 2010

Claudio Magris
Microcosmi
Garzanti 1997

Claudio Magris, "Microcosmi", Garzanti 1997

Certo che Magris deve scrivere maledettamente bene. La sua qualità deve essere nascosta, un profumo, una musica, un calore talmene leggero e suadente che dopo un attimo smetti di farci caso ed è come se non ci fosse. Non ho altra spiegazione per il fatto di essere riuscito a leggere un libro in cui sostanzialmente non succede niente. Un libro senza trama.
Ogni capitolo prende spunto da un luogo ben conosciuto (un bar, una montagna, un parco...) che la penna dello scrittore trasforma in un incredibile microcosmo popolato di personaggi inverosimili e dalle loro storie minime e imprevedibili.
Una delle questioni che si presentano quasi subito ma che non si riesce a risolvere fino alla fine del libro è proprio la dose di realismo che l'autore mette nel racconto. All'inizio pensavo che i personaggi descritti fossero inventati; nel secondo capitolo però entra in scena Mauro Corona, non ancora scrittore famoso ai tempi dell'uscita del libro e definito semplicemente come scultore. Uno dei tanti che all'uscita del libro deve aver fatto pensare a molti: «Impossibile che esista uno così». E invece esiste.
Il libro racconta di persone, racconta di luoghi e di come le distinzioni fra un posto e un'altro, fra una persona e un'altra non siano altro che tentativi artificiosi per definire qualcosa di sfuggente come l'identità.
Ci sono confini che hanno a che fare con lo spazio ed altri con il tempo; leggendo questo libro sembra che in entrambi i casi questi confini non chiedano altro che di essere oltrepassati. Il bar, la foresta, la laguna sono tutti luoghi in cui le diversità che i confini cercano di circoscrivere e definire finiscono col confondersi. I confini definiscono le identità per sottrazione ma il risultato finale non può che essere il nulla.
Lontano da ogni moralismo o retorica, Magris riesce a riflettere sul tema dell'identità con una ricchezza di spunti che forse solo un triestino avrebbe potuto trovare.

mercoledì 22 dicembre 2010

I bambini e la filosofia

Ieri mi è capitata una cliente da servizi sociali. Voleva "Il mio primo libro di filosofia" per suo figlio, a occhio e croce di nove o dieci anni. Mentre le cercavo il libro la cliente si produceva in un'esaltazione del valore di quel libro, della sua capacità di stimolare la mente del giovane figliuolo, della superiorità di questo libro rispetto a libri cosiddetti "per grandi". Capita spesso che i clienti cerchino l'approvazione del libraio rispetto alle loro scelte ma il più delle volte non vogliono altro che sentirsi dire, in forma indiretta: si capisce che sei una persona intelligente (o, come in questo caso, un bravo genitore), si capisce dai libri che compri. Il libro come strumento di approvazione sociale.
Ma andiamo avanti. Il figlio, già abbastanza stimolato dalla madre (il padre immagino sia già scappato da un pezzo) non è evidentemente interessato al gioco che gli ho proposto "trova il libro per la mamma" e sta sfogliando un libro sugli animali.
- Posso avere questo?
La madre non guarda nemmeno il libro.
- Cosa bisogna fare in questi casi?
- Non fermarsi alla prima scelta, valutare diverse possibilità e solo dopo un'attenta analisi prendere una decisione.
- E allora?
- Allora continuerò a guardare per capire se è veramente questa la scelta migliore per me.
- Bravo.
Un bambino così non si recupera più. Comunque "Il mio primo libro di filosofia" non è stato trovato. Meglio così.

venerdì 17 dicembre 2010

Ancora qualche riflessione su Amazon.it

Vorrei promettere di non occuparmi più di Amazon per un po', ma come si fa a fare certe promesse... In fondo Amazon è un po' come Mourinho, antipatico perché fuori dalle regole, simpatico per lo stesso motivo. E come per Mourinho le peggiori cose su Amazon le dicono i "colleghi".
Sento i rappresentanti dei vari editori che discutono tra loro. La domanda che tutti si fanno è: chi ha dato i libri ad Amazon se quando ha aperto noi non ne sapevamo niente? Chi dice Fastbook, chi Mondadori Francising; siamo ancora nella fase in cui si cerca qualcuno a cui dare la colpa. Non ci vorrà molto per scoprire l'arcano: le scorte finiranno (molti titoli sono già non disponibili) e vedremo chi calerà le braghe per primo.
Altra cosa inconcepibile è il fatto di avere i magazzini in Francia. Un libro ordinato a Roma parte per la Francia, poi torna a Orio al Serio e infine a Roma. Un bel giro senza dubbio, ma è tanto diverso da quello che succede con la distribuzione italiana? Basta pensare a quello che sta succedendo con PDE...
Poi ci sono gli sconti. Come fanno a vendere col trenta per cento di sconto? Lavorano in perdita? L'idea che questa è un'azienda di livello mondiale fatica a prendere corpo nelle loro teste. È lo stesso sistema dei supermercati, solo applicato all'editoria: avendo un'offerta diversificata posso permettermi di perdere da una parte se guadagno da un'altra. Immagino che Amazon guadagni bene vendendo orologi.
Riassumendo, mi pare che tra gli addetti ai lavori si stia tentando di spiegare il comportamento di Amazon usando le categorie del mercato editoriale italiano, categorie evidentemente inadeguate visto che portano ad una innegabile incomprensione del fenomeno. Basterebbe invece leggere l'intervista rilasciata a Severgnini dai due boss di Amazon (su Sette) per capire con precisione in quale direzione stiamo andando.
"Il cliente comanda" è il loro motto ed è molto più di un semplice "il cliente ha sempre ragione". E qual'è la prima cosa che vuole il cliente? Prezzi bassi. Per questo motivo la strategia di Amazon è molto semplice: passato questo periodo "promozionale", per ogni libro si posizionerà al livello dell'offerta più bassa dei siti concorrenti. In questo modo il cliente saprà di poter contare sempre sul prezzo più basso (anche se alla pari con qualcun'altro) e la concorrenza dovrà necessariamente deporre le armi, pena l'annientamento. Non tutti lo hanno capito: ho visto siti proporre sconti del 32% su alcuni bestseller che Amazon aveva al 30%; risposta di Amazon: 33% di sconto. Avanti così.
Ma il cliente vuole anche sapere se il libro c'è davvero e quando arriverà. Da questo punto di vista la mia speranza è che dal confronto con Amazon i siti italiani siano spinti a migliorare la qualità delle loro informazioni al cliente. Il paragone in questi giorni è veramente impietoso: Amazon informa i clienti del numero di copie in magazzino, della possibilità o meno di ricevere il libro entro Natale e, quando non è sicuro di consegnare in tempo sentite cosa dice: «Vuoi la consegna entro Natale? Questo articolo ha dei tempi di spedizione più lunghi e verrà consegnato dopo il 25 dicembre». Quale sito italiano è così onesto?

martedì 14 dicembre 2010

Ultime prima di Natale

Stanno iniziando i fuochi d'artificio e la situazione è grosso modo questa.
Da Fazio stanno andando i pezzi da novanta dell'editoria, Augias, Grossman e chissà chi altro. Siamo in balia di un programma televisivo che detta la lista della spesa degli italiani di cultura medio alta, quelli per intenderci che non si fanno influenzare dalla televisione. Il sabato sera anche il libraio che vorrebbe fare qualcosa di diverso, tipo leggersi un libro, è costretto a guardarsi un'ora e mezza di televisione solo per sapere cosa verranno a chiedere i clienti il giorno dopo. Libro e televisione sono ormai intimamente legati, forse ne parlerò più estesamente in futuro, quando le acque si saranno calmate.
Crisi di panico diffuse: manca il libro di Benedetto XVI, atteso per l'Immacolata arriverà, se va bene, per la fine di questa settimana. Dentro di me godo perché la Vaticana sembra essere l'unica ad andare contro il mercato con le sue scelte editoriali sconsiderate. Il libro manca da almeno due settimane ma stranamente Avvenire lo dà in testa alla classifica.
Possibile e auspicabile sorpresa: l'autobiografia di Franca Valeri.
Possibile e auspicabile flop: Impero di Alberto Angela.

venerdì 10 dicembre 2010

Tra le molte cose che può fare il cliente per mandarmi in bestia quella che si verifica più di frequente è seguirmi mentre vado alla ricerca di un libro. Una copia, un anno che è in giro, non è a scaffale, non si trova. E dietro di me un idiota che pensando di essere simpatico commenta:
- Ma non sono in ordine? Ma come fate a trovarli? Io diventerei matto!
Ricapitolando: il libro non si trova, il cliente mi guarda ammirato (vedrai come sarai contento quando te ne andrai senza libro) e il capo, da lontano, sta visibilmente perdendo la pazienza. Cosa può succedere ancora?
In psicologia deve esserci un nome per descrivere questo comportamento umano. Il cliente che guarda insistentemente il libraio cercare, finisce col ripetere mentalmente la stessa azione finché questo tipo di gratificazione diventa insufficiente. E fa il bel gesto:
- La posso aiutare?
Se rispondi «No perché non sei capace» rischi la figura del pirla ancora prima di arrenderti all'evidenza che il libro non c'è. Infatti nemmeno tu troverai il libro. Se rispodi «Prego, faccia pure» puoi star sicuro che il libro salterà fuori esattamente dove avrebbe dovuto essere, solo che non sarai tu a trovarlo.
Ed anche in questo caso prendi e porta a casa.

domenica 5 dicembre 2010

Ogni maledetta domenica (fino a Natale)

Sì, l'incasso è buono. Anche qualcosa di più. Eppure io continuo a pensare che non è giusto lavorare la domenica. Sono sicuro che l'apertura domenicale non fa altro che concentrare in un giorno l'incasso che altrimenti verrebbe spalmato su tutta la settimana. Perché se uno ha deciso di fare i regali di Natale in un modo o nell'altro li fa, non c'entra niente il giorno.
Tanto più che anche la domenica ti vedi arrivare gente con la lista dei libri per l'università e dato che gli universitari di oggi sono tutti fancazzisti non vedo perché debbano farsi venire la voglia di studiare proprio oggi.
La domenica è fatta per riposare, non per andare a far la spesa. E io oggi non ho riposato per niente.

mercoledì 1 dicembre 2010

Questa sera ho letto un articolo di Enzo Bianchi che mi è molto piaciuto, anche se alla fine si è rivelata la solita marchetta. E mi sono detto: questa è una cosa che in futuro potrei aver voglia di rileggere. Non sapendo dove metterlo per non perderlo, lo copio qui. Può sembrare che la tavola non abbia niente a che fare con la libreria ma a pensarci bene... quanti tavoli, quanto cibo, quanti commensali, quanti ospiti ci sono anche in un posto come questo!
* * *
Stare a tavola, ecco le buone regole
di Enzo Bianchi
Di tutto il mobilio che arreda una casa, la tavola è forse l’elemento più eloquente. La sua grandezza, in particolare, dice molto dei padroni di casa: se sono una famiglia piccola o numerosa, se per loro la tavola è semplicemente un luogo su cui consumare il cibo oppure uno spazio per stare tutti insieme anche con gli ospiti. Che tristezza una tavola piccola, alla quale non si possono invitare «gli altri», una tavola stretta, magari addirittura «a scomparsa».
Ricordo che un tempo la tavola era un mobile di cui essere orgogliosi: in legno massiccio, collocata come regina al centro della cucina, attirava subito lo sguardo di chi entrava. Le sue gambe solide e mai traballanti, modellate al tornio oppure squadrate, colpivano l’attenzione, al pari del suo piano, sempre in vista, che fosse di marmo o di legno nobile come il ciliegio o il noce, mai avvilito da una squallida cerata, anzi spesso adornato da pochi, semplici, oggetti quotidiani che lo riportavano con gusto alla sua essenza di fulcro di convivialità: un cesto di frutta, una pagnotta e un orcio d’olio, una composizione di zucche ornamentali...
Tutto questo, certo, prima che agli inizi degli anni Sessanta irrompesse la praticissima iattura dei ripiani in formica. Avvenne allora un’autentica rivoluzione: tutti si affrettarono a mettere in cantina o a vendere per pochi spiccioli i vecchi tavoli di solenne austerità per introdurre esili tavoli come rattrappiti, colorati con tonalità assurde. Certo, i nuovi oggetti erano lavabili, non richiedevano più la tovaglia, ma nel contempo smarrivano la loro identità e il loro significato, a volte cedevano anche la solenne e regale collocazione al centro della stanza, magari per far posto al vuoto che consentisse di fissare lo sguardo verso il nuovo idolo, la televisione. Subii a malincuore quel mutamento anche a casa mia, ma con la netta percezione di assistere a qualcosa che aveva a che fare con la barbarie, con il venir meno del senso dello stare a tavola. Ed è quanto purtroppo avvenne...
Eppure la tavola è il luogo attorno al quale si consuma un rito proprio, fra tutti gli animali, solo all’essere umano: quello di mangiare insieme e non in competizione con i propri simili. E, mangiando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comunica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scambiano. Mentre uno parla, gli altri mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse, anche a questo serviva l’ingiunzione di «non parlare a bocca piena».
Nessuna idealizzazione però in questa intima connessione tra il mangiare e il parlare: quando ci si siede a tavola, mescolato al desiderio e al bisogno di mangiare, c’è anche un sentimento di aggressività verso l’altro; oppure c’è il mutismo ostile che trasforma lo stare insieme in fastidio reciproco. Occorre disciplina, consapevolezza dell’aggressività che ci abita: si tratta di evitare di parlare spinti da ciò che emotivamente ci domina, di vigilare sull’umanizzazione del nostro rapporto con il cibo e con la parola. Non a caso la sapienza monastica prescrive di iniziare i pasti in silenzio, dopo una preghiera di benedizione e ringraziamento. È un atteggiamento che andrebbe ripreso anche fuori da un contesto religioso, trovando adeguate modalità per porre una distanza tra sé e il cibo, per prendere coscienza di non essere i soli o i «primi» attorno a quella tavola e, di conseguenza, vigilare sulle parole che escono dalle nostre labbra.
Se è degna di tal nome, la tavola la si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti... – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente.
Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio».
Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita.
Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro... Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore.
La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro.
La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro. Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.
da: Avvenire, 1 dicembre 2010, p. 31