martedì 1 ottobre 2013

Nel frattempo, gli editori...

Forse non tutti lo hanno notato ma da qualche anno è in atto, da parte dei grandi gruppi, una strategia editoriale che, nonostante tutti i miei sforzi, continua ad apparirmi incomprensibile. Mi riferisco alla nascita di quelle che, in assenza di definizioni più precise a me note, io chiamo collane sovraeditoriali. Sono collane nelle quali confluiscono quasi esclusivamente ristampe di titoli sicuri, spesso semplicemente i più venduti, ma la loro caratteristica più interessante è il fatto di pescare indifferentemente dal catalogo di più editori.
Nei "Numeri Primi", che per quanto ricordi è stata la prima collana di questo tipo (e comunque la più invasiva) sono uscite nuove edizioni dei pezzi forti di Mondadori, Einaudi, Piemme, Sperling e Frassinelli. In pratica un dream team che manda in campo in un colpo solo Giordano e Volo (Mondadori), Murakami e Nesbo (quest'ultimo passato da Piemme, che lo ha scoperto, a Einaudi), Hosseini e Brosio (sì, Brosio vende bene, è inutile fare ironia) e persino la Sveva, come la chiamano dalle mie parti. La grafica, come in ogni collana, tende ad essere uniforme, con le dovute eccezioni. E proprio qui, nella grafica, si nasconde credo il senso di tutta l'operazione: guardando i "Numeri Primi", così come i neonati "Pickwick", è praticamente impossibile distinguere l'editore di appartenenza.
Prima di proseguire sarà opportuno un chiarimento. I non addetti ai lavori potranno domandarsi leggittimamente come sia possibile che editori in concorrenza fra loro possano rinunciare alla visibilità del proprio marchio per annullarsi in un'alleanza che non sembra portare alcun beneficio a titoli già di per sé molto forti. In realtà tutti questi editori fanno parte di un unico grande gruppo editoriale, il gruppo Mondadori, e pur sopravvivendo le specificità dei singoli soggetti e non mancando la concorrenza (e i colpi bassi, come nel caso citato di Nesbo), si può tranquillamente dire che le strategie editoriali sono ben coordinate. Prova ne sia l'uscita a distanza di un mese abbondante di Dan Brown e Kaled Hosseini, un palese patto di non belligeranza tra Mondadori e Piemme.
Giusto perché non si creda che ce l'ho con Mondadori, ricorderò che anche Rcs, altro gruppo editoriale cui fanno capo Rizzoli, Bompiani e Adelphi, è ricorso allo stesso stratagemma quando ha lanciato la collana "Vintage". Il gruppo Messaggerie non ha avuto bisogno di inventarsi una nuova collana dato che ormai la narrativa di Garzanti, Longanesi, Nord, Leggere, Fanucci e compagnia, complici anche le fascette che nascondono marchio e nome dell'editore, sono praticamente indistinguibili. Feltrinelli, il quarto grande gruppo editoriale italiano, è arrivato per ultimo ma ha giocato il carico. La sua collana si chiama... Feltrinelli, e coinvolge Voland, l'editore della Notomb, e Fandango se non ricordo male; e così, giusto per non passare inosservati, hanno dato ai libri una forma quasi quadrata che da mettere nello scaffale è una meraviglia. Però c'è da dire che in quest'ultima collana escono solo novità, per ora.
Si vede bene, anche da un'analisi sommaria come questa, che non siamo di fronte all'iniziativa estemporanea di qualche direttore editoriale impazzito; questa è una tendenza precisa, inequivocabile e a quanto pare largamente condivisa, la perdita cioè dei propri tratti distintivi (solo a livello grafico, certo, ma cosa resta a distinguere certi editori se non la grafica?) per annullarsi in un pastone di bestseller tutti uguali. Fin qui mi è tutto chiaro. Quello che non riesco a capire è l'obiettivo finale di questa operazione. Se, come credo, stiamo andando verso una drastica e dolorosa semplificazione, potremmo assistere a breve ad un processo imprevisto per cui a soccombere non saranno i piccoli editori, ininfluenti nel grande gioco editoriale italiano, quanto piuttosto i pesi medi, quelli con un grande passato alle spalle ma un'identità difficile da definire nel presente. Forse il fatto che Baldini abbia chiuso i battenti liberando i suoi pezzi da novanta (Faletti e Busi) fa parte della stessa strategia. La tanto temuta perdita di bibliodiversità sta avvenendo sotto i nostri occhi non per colpa della crisi o della scarsa propensione all'acquisto di libri degli italiani, ma più banalmente per una semplice legge di mercato che impone a chi è grande di crescere sempre di più a spese dei suoi concorrenti. Fino al crollo.

giovedì 19 settembre 2013

Non c'è due senza tre

Mi rendo conto che ci sarebbero tantissimi argomenti interessanti di cui occuparsi, soprattutto ora che iniziano ad arrivare in libreria le prime vere novità, si tirano le somme dell'estate passata e si incomincia a pensare a Natale. Eppure anche stavolta ho deciso di occuparmi di questioni personali, rimandando a momenti più sereni le questioni, diciamo così, tecniche.
Non molto tempo fa (per i miei standard significa un paio di mesi fa, tradotto in numero di post direi non più di tre) ho raccontato la storia della mia ormai ex collega che aveva deciso di trasferirsi in una piccola libreria suscitando in me non poche perplessità. Bene, riprendiamo da qui.
Naturalmente io non mi ero tenuto per me le mie considerazioni disfattistiche sul futuro delle librerie, dei libri e del mondo intero. Tra le altre, ne avevo parlato con una delle colleghe anziane, per quanto più giovane di me, ed anche a lei avevo espresso le mie preoccupazioni per la scelta della nostra collega. Dopo neanche un mese anche questa seconda collega ha comunicato la sua decisione di andarsene, con destinazione niente meno che la stessa libreria della prima. Campagna acquisti faraonica da parte della concorrenza visto che si è accaparrata due bravissime libraie e per giunta ottime lettrici, e danno incalcolabile per noi.
Commento di mia madre: non farete fatica a trovare qualcuno, con tutta la gente che cerca lavoro...
- Sì, ma non tutti sanno fare i librai...
- Ah? Perché, cos'è che bisogna saper fare?
Sono giorni strani. Il periodo delle ferie è così, manca sempre qualcuno per un po' di tempo, poi torna e va via un altro, e c'è sempre quel lavoro ingrato che nessuno fa perché tanto "quando torna lo faccio fare a Tizio". Ecco, adesso è come se le nostre colleghe fossero in ferie, non ci sono ma per noi non è ancora cambiato niente.
Tutto questo ha fatto passare in secondo piano il fatto che l'ultimo arrivato, cioè io, fosse in scadenza di contratto. Certo, ovvio, dopo le due defezioni è inutile fare gli ingenui, il mio rinnovo è quasi sicuro. E siccome adesso sono deboli, ho confidato a una collega, è il momento di andare dai capi e andarci giù duro con le richieste, e per prima cosa bisogna chiedere... soldi!
Lo so, discorso effimero, ma sono convinto che sia giusto alimentare il malcontento nelle truppe quando le cose vanno male, perché i capi ti portano alla rovina e solo la rivolta dei soldati può salvarti la vita. Un po' Corazzata Cotionkin, ma rende l'idea. Un paio di giorni dopo questa stessa collega mi chiama e mi dice che ha trovato lavoro in una scuola, e quindi se ne va.
E siamo a tre.

martedì 6 agosto 2013

Gran Turismo

Il cliente del settore turismo è una categoria a parte. Compra solo Lonely Planet e se non c'è la Lonely piuttosto esce senza e non serve a niente avere una parete di guide turistiche alternative. Il cliente del settore turismo è un partigiano, la sua è una scelta di campo: Lonely, solo Lonely, sempre Lonely. Inutile cercare di spiegare che la Guida Verde del Touring è una spanna sopra, che le Lonely vanno bene per il turista della domenica e poco più... Anzi, più che inutile, pericoloso. Si rischia l'aggressione. Certo, stai dando della capra a un cliente, non è che ti puoi aspettare che ti dia ragione...
Alcuni comprano una guida turistica per andare a Santorini. Ora, con tutta la buona fede di questo mondo... a cosa serve una guida turistica a Santorini?
Altri invece chiedono, come se fosse la cosa più normale, guide turistiche per posti assurdi, cose che pensi: ma ci vai in vacanza o stai scappando dai creditori? Kuala Lumpur, Bangkok, Sydney... E poi stanno a guardare il prezzo, chiedono se c'è lo sconto. Cosa fai, spendi tre o quattro dei miei stipendi solo per il viaggio e poi chiedi lo sconto per la guida? Ma allora sei anche tu un poveraccio come me! Sei povero dentro!
E poi ci sono quelli che siccome non vogliono andare dove vanno tutti, si inventano il viaggio su misura, quello che tocca Austria, Svizzera e Germania, in moto, tanto per fare un esempio reale. E poi, dopo che hanno organizzato tutto (!) vengono a chiedere se c'è una guida che ricalca il loro itinerario. A questi fatico veramente a non rispondere che le guide su misura non le hanno ancora inventate.
Sospetto, ma non ne ho le prove, che ci siano anche i collezionisti di guide, ovviamente sempre Lonely Planet. Non mi spiego altrimenti le richieste tipo: sei mesi fa mi avete detto che doveva uscire la nuova edizione del Sudafrica... Cosa fai, aspetti ad andare in Sudafrica finché non esce la nuova guida? E comunque, vogliamo parlare dell'ossessione per l'ultima edizione? No, vero?
E' proprio vero, come avrebbe detto mia nonna, che la gente non sa più dove andare. Non voglio fare il qualunquista e dire che c'è la crisi e le autostrade sono piene o cose del genere. Però, per quelli che ancora se lo possono permettere, sembra che il mappamondo sia diventato un catalogo un po' limitato. Quando qualcuno mi chiede una guida per un posto strano e io sono senza, non manco mai di fare la battuta: "Eh... si vede che quest'anno andate tutti lì!". Rido solo io. Mi accontento di poco.
Io mi sto inacidendo, lo so. Non è solo colpa di questo lavoro, anzi forse il lavoro non c'entra niente, ma finisce che dei clienti vedo solo gli aspetti negativi, e tutti, salvo rare eccezioni, si portano in negozio qualcosa che me li rende insopportabili.
E' facile pensare che questi del settore turismo siano annoiati da tutto e sempre in cerca di qualcosa che pensano di trovare dall'altra parte del pianeta; ma ho paura che non sia questo romantico senso di insoddisfazione ad animarli. In queste persone io vedo solo il vuoto, un vuoto che loro per prime non sembrano affatto preoccupate di riempire. Viaggiano per avere qualcosa da raccontare, ecco tutto, con lo stesso spirito con cui vanno al ristorante, guardano un film o... leggono un libro. Non è l'esperienza in sè ad essere significativa ma il racconto dell'esperienza, quei quindici minuti di protagonismo che ti garantisce l'essere uscito dalla tua vita ordinaria per accostarti a quella straordinaria che tutti (?) sognano.
Fateci caso: nessuno ha mai il coraggio di ammettere che i posti che ha visto non gli sono piaciuti, che il viaggio è stato inutile, che insomma le cose non sono andate come avrebbe voluto. E soprattutto nessuno fa un viaggio in segreto, senza dirlo a nessuno o peggio ancora, dicendolo ma senza raccontarlo al ritorno. Questo la dice lunga sul significato del viaggio contemporaneo.
Quando poi torni non hai niente su cui riflettere perché non è successo niente di inaspettato, tutto è andato come previsto, la vacanza è riuscita bene. Sapevi già cosa avresti visto, lo hai visto, lo hai anche fotografato, e adesso me lo fai vedere. L'imprevisto non ha spazio, perdersi non è contemplato, cambiare itinerario si può solo se si è deciso prima. Tutto è organizzato, a partire dal tempo, dalla durata del viaggio che deve essere stabilita a priori: spesso il giorno dopo si deve tornare al lavoro.
L'uomo di oggi vive di organizzazione, chi non si sa organizzare è un fallito in partenza. Anche la nascita ormai è organizzata, mica puoi nascere all'improvviso, e tra poco organizzeremo anche la morte, così sarà più facile organizzare quello che c'è in mezzo.
Ma questo discorso mi sta portando troppo lontano, meglio darci un taglio. Comunque buone vacanze, e buon viaggio a tutti!

martedì 23 luglio 2013

Progetti ambiziosi

Oggi è andata che ho preso sei treni diversi e nessuno era in orario. Il primo, questa mattina abbastanza sul presto, ha rischiato di non arrivare mai. Potete immaginarvi come sono sceso dal sesto questa sera, verso le 20.40.
In mezzo, una normale giornata di lavoro: il capo mi stampa una resa Mursia, io mi ci metto di buona lena, intanto servo i clienti, carico qualche rifornimento, faccio due parole con le colleghe, e arrivo comodo nel tardo pomeriggio con la resa contabilizzata, inscatolata e pronta per essere autorizzata. A questo punto la palla passa alla mia collega che si occupa delle autorizzazioni (non sono ancora riuscito a far capire al capo che questa cosa non è niente di straordinario, una telefonata al rappresentante la posso fare anch'io, l'ho sempre fatto, ma insomma, ognuno ha il suo ruolo e io non voglio rompere gli equilibri, capirai...).
Così la notizia non mi arriva direttamente: il magazzino è chiuso e la resa parte a settembre. Che fare? Niente, riapri i pacchi, rimetti a posto i libri e annulla la resa. Fine della mia giornata di lavoro.
Così adesso non ho neanche la forza di mettermi ai fornelli. La scelta è: festa di Sel o pizzeria. Pizzeria vuol dire aria condizionata, mi dispiace per Sel ma stasera sto con la borghesia. Il pizzaiolo è del mio paese, ha la mia età e alla fine scambiamo due parole.
Chissà perché quando parliamo con qualcuno che non vediamo da tanto tempo cerchiamo sempre di dimostrare interesse verso il suo lavoro, e ne veniamo immancabilmente ricambiati. Io gli chiedo com'è andata la Notte Bianca (la pizza in piazza, cose così); poi è il suo turno. Mi dice di aver iniziato un libro che parlava di cibo (penso alla Parodi), che parlava di farina (no, forse Mozzi), del fatto che sono tutte balle quelle che ci raccontano («Ah, sì, "Le bugie nel carrello"», dico io) ma di averlo abbandonato dopo poche pagine. «Ma adesso - conclude - voglio mettermi d'impegno: a settembre mi piacerebbe proprio leggere un libro intero!». Colpo di grazia.
Gli ho fatto i miei migliori auguri per il suo progetto e sono uscito pensando, chissà perché, ai progetti di promozione alla lettura. Bei risultati.

mercoledì 17 luglio 2013

Una mia collega è appena tornata dalle ferie e ci ha annunciato, tutta contenta, che a fine mese se ne va. Ha trovato lavoro in una piccola libreria, aperta da poco e con poco personale. Dato che io e lei abbiamo parlato spesso di come vanno le cose nell'ambiente, mi sono molto stupito della sua scelta. Certo, non è che il posto dove siamo sia una botte di ferro: stipendi a singhiozzo, straordinari non pagati, flessibilità oraria praticamente totale, tutto dovuto e se le cose vanno male la colpa è nostra. Tutti i negozi funzionano così e con la scusa della crisi le cose stanno peggiorando. Non c'è riforma del lavoro che tenga, o contratto, o sindacato che possa intervenire nel momento in cui il tuo superiore ti viene vicino e ti dice che ha bisogno che ti fermi un ora in più e quest'ora la recuperi quando si può, cioè forse fra tre mesi. Cosa fai, dici di no? Lo sai che siamo tutti sulla stessa barca e che se rifiuti metti in difficoltà tutti?
Se queste sono le cose che non ti stanno bene, le ho sempre detto, allora non ti illudere perché in qualsiasi altro negozio troverai una situazione uguale, se non peggiore. Figuriamoci in un piccolo negozio, col proprietario che ti sta sempre addosso e guarda l'incasso ogni dieci minuti.
Ecco perché mi ha stupito la sua scelta. Sono molto preoccupato per lei perché è una di quelle che crede nel mestiere di libraio, che difende il libro di carta "perché ha qualcosa in più", insomma una un po' idealista. Io vedo un mercato del libro che si sta trasformando rapidamente, i negozi chiudono e tutto si sposta on line, le recensioni, i consigli, gli acquisti. I lettori diventano i librai del futuro, danno consigli sui social, determinano la fortuna di un libro indipendentemente da quello che succede nelle librerie fisiche. La parte tecnica del nostro mestiere (conoscere gli editori, chi li distribuisce, saper fare una bolla di carico o una resa) tra poco non servirà più a niente perché i libri passeranno direttamente dall'editore al lettore.
Insomma io non vedo un grande futuro per questo mestiere. Secondo me avrebbe fatto molto meglio a restare dov'era, oppure a cercarsi un lavoro diverso, ma una piccola libreria no. Tutto ma la piccola libreria di quartiere proprio no!

giovedì 20 giugno 2013

mercoledì 22 maggio 2013

Dan Brown
Inferno
Mondadori 2013

In molti faranno l'errore di abbandonare questo libro dopo cinquanta pagine. E come biasimarli?
L'inizio è del tutto improbabile e bisogna essere molto indulgenti per non chiudere tutto dopo la fuga dall'ospedale. Tuttavia, lo dico subito, chi avrà la pazienza di arrivare a pagina 400, o giù di lì, si troverà di fronte al colpo di scena, il primo di tutto il libro, e forse rivedrà il giudizio anche su alcuni passaggi un po' forzati delle pagine precedenti. Intendiamoci: niente giustifica un momento come quello dello scambio della parrucca. Però devo ammettere che la parte finale del romanzo rimette un po' le cose a posto. L'impressione finale è che la trama sia stata ben congegnata per ottenere l'effetto sorpresa e, devo ammetterlo, con me ha funzionato. Mi è sembrata una buona idea anche iniziare il romanzo con Langdon che perde la memoria degli ultimi due giorni; questo lo costringe a compiere un'indagine a ritroso per capire come mai si trovi ora inseguito da tutti e con una ferita di pallottola in testa. I vaghi ricordi riaffiorano sotto forma di sogni, rendendo questa sorta di premonizioni qualcosa di concreto su cui lavorare. Come al solito il ritmo è serrato, tutta l'azione si svolge nel giro di ventiquattro ore.
Il libro si legge bene anche perché gratta gratta le cinquecentoventi pagine del volume si ridurranno si e no a trecento quando uscirà il tascabile: ampi margini, spazi bianchi a fine e inizio capitolo, insomma tutto quanto serve per giustificare la spesa folle di venticinque euro. E poi i capitoli non sono più lunghi di quattro pagine, giusto il tempo di qualche stazione di metro, il quarto d'ora avanzato della pausa pranzo, i dieci minuti prima di andare a dormire. Dovete credermi, l'ho letto in una normale settimana lavorativa, senza particolare impegno.
Da ultimo, visti i precedenti, c'è da ringraziare "e cielo e terra" che ci siano state risparmiate le interpretazioni fanta-esoteriche della Commedia, alla "Codice da Vinci".
E con questo finiscono le cose positive di "Inferno".
A livello di editing è stato fatto un errore grossolano nel non usare un carattere diverso per distinguere i pensieri dei personaggi dai dialoghi, limitandosi a usare due tipi diversi di virgolette. Non si capisce niente, anche perché la scrittura di Dan Brown non aiuta a fare chiarezza.
Dire che il primo colpo di scena arriva a pagina 400 è un modo per dire che tutto quello che avviene prima è ampiamente prevedibile per un normale lettore italiano. Un americano forse avrà qualche difficoltà a sciogliere l'enigma CATROVACER, ma per un professore di storia dell'arte che è stato spesso in Italia e che legge Dante, e dunque si suppone conosca piuttosto bene l'italiano, è veramente inconcepibile che servano più di quaranta pagine per trovare la soluzione. Per non parlare del numero di pagine che gli servono per recuperare un testo della Divina Commedia da consultare e tutto questo perché Langdon, che tiene regolarmente corsi universitari su Dante, non ricorda il contenuto del Venticinquesimo del Paradiso. Il personaggio di Langdon è frequentemente in contraddizione culturale con sè stesso: conosce i particolari, ricorda i passaggi segreti dei palazzi, riconosce edizioni rare della Commedia ma cade su cose che si trovano su qualunque manuale di storia dell'arte, non ultima la pericolosa classificazione di Vasari come artista del Rinascimento.
Questo è un problema che il personaggio di Langdon si porta dietro da quando è nato. Ricordo solo a titolo di esempio, in "Angeli e Demoni", il suo stupore nello scoprire che in Santa Maria del Popolo a Roma c'è un'opera di Raffaello.
Il fatto è che Dan Brown ha creato un esperto di arte che non riesce a gestire perché è lui stesso a sapere poco o niente di arte, in particolare di arte italiana, e sul quale però continua ad insistere avendo costruito su di lui la sua fortuna.
Naturalmente non è solo Langdon a risentire di queste lacune. Ogni volta che il narratore azzarda qualche giudizio critico su un'opera, sia pure solo un aggettivo, o è banale ("famoso" è sicuramente il più frequente) oppure scrive grandiose stupidaggini. Alcune descrizioni fanno rimpiangere le Guide Verdi del Touring e comunque nessuna va al di là del compitino. Immagino che gli americani, che ancora sognano "Vacanze romane", si possano esaltare per così poco; noi italiani abbiamo il dovere di essere molto più esigenti.
Anche la trama, nonostante le qualità di cui ho dato conto prima, non è esente da pecche. Il testo che Langdon trova sul retro della maschera inizia con una citazione letterale di Dante ma prosegue con versi dalla metrica zoppicante (troppo difficile farsi scrivere qualche endecasillabo da un italiano?); i versi sono scritti in forma di spirale e ci si aspetterebbe, visto che il professore è esperto in simbologia, che questa spirale nasconda chissà quale segreto... invece niente. Così come non ha nessun riscontro nel testo la tanto pubblicizzata trovata dell'anagramma del giorno di uscita del romanzo che dà come risultato il Pi greco (3,1415).
Ma la mancanza peggiore riguarda proprio l'elemento su cui si basa tutto il romanzo, ovvero la presenza incessante di riferimenti alla Divina Commedia. In realtà non esiste alcun legame logico fra il progetto distruttivo del "cattivo", le sue motivazioni, la sua realizzazione e il testo dantesco. L'unica giustificazione che viene data è la passione che il "cattivo" nutre per Dante e la sua opera, tutto si riduce a questo. L'"Inferno" non ispira le sue azioni ma è soltanto la chiave per risolvere tutti gli enigmi che di volta in volta crea per... Ecco un'altro grosso problema: perché il "cattivo" ha creato questa caccia al tesoro a tema? La motivazione, che viene svelata più o meno verso la metà del libro, è sconcertante: voleva permettere a una certa persona (che per altro non avrebbe alcun motivo per conoscere Dante e la Commedia, trattandosi di un medico) di raggiungere il luogo in cui "il mondo è stato cambiato per sempre". Ma, a creare ulteriore confusione, si scoprirà alla fine che l'evento attorno a cui ruota tutto il romanzo sarebbe dovuto succedere molto prima del previsto, dunque perché nascondere "sotto 'l velame de li versi strani" qualcosa che non corre il rischio di essere evitato visto che è già successo e che, soprattutto, si vuole far scoprire, anche se in ritardo? A questo punto mi tocca rivalutare anche l'ambizioso "Catone", romanzo della Asensi di qualche anno fa, molto più strutturato sul poema dantesco anche se crollato verso la metà.
Nel tentativo di non svelare il finale non sono stato molto chiaro, me ne rendo conto. Abituatevi, se decidete di leggere "Inferno".

domenica 19 maggio 2013

Oggi le mie colleghe mi hanno segnalato un bellissimo articolo di Roberto Napoletano sul Domenicale del Sole 24 Ore. Lo leggo e mi trovo catapultato ancora una volta in un mondo che non è il mio. E' il solito lamento nostalgico di chi ama annusare i libri e che deplora il fatto che di tanto in tanto una libreria chiuda. Di chi cita per nome i proprietari delle librerie che frequenta e che sono sparse per l'Italia. E io questi discorsi non li sopporto più.
Ho conosciuto Roberto Napoletano qualche anno fa, quando venne in negozio per assicurarsi che il suo libro appena uscito fosse stato esposto adeguatamente (e se ne andò senza sapere che era stato tirato fuori dagli scatoloni in fretta e furia e solo grazie al suo arrivo); temo che il rapporto fra autori di libri e librerie non vada molto più in là di così, altro che girare per toccare e annusare. Ho avuto come clienti abituali comici, attori, cantanti, presentatori televisivi, psicologi, politici chiacchierati e persino un ex ambasciatore, ma un solo giornalista (firma autorevole del Corriere) e nessuno scrittore. I giornalisti veri credo non abbiano tempo né denaro per passare le ore in libreria; gli altri sono quelli che ricevono pile di libri omaggio dagli editori che sperano anche solo in una citazione (e nessuna citazione è casuale, mettetevelo in testa). Per questo sono sempre un po' perplesso quando sento i giornalisti fare questi discorsi.
Faccio poi notare che le librerie citate da Napoletano non rientrano certo nella categoria "piccola libreria di quartiere": in alcuni casi stiamo parlando di gente che è proprietaria di quattro o cinque negozi, gente che ha alle spalle patrimoni da far paura e che se decide di chiudere non lo fa perché è costretta ma solo perché non ha più interesse ad investire e preferisce godersi le rendite dei suoi immobili.
Paradossalmente l'immagine di libreria che si ricava da quest'articolo, che si basa su premesse quantomeno discutibili, è tuttavia la più vicina alla realtà. Per questi intellettuali da terza pagina le librerie sono ormai dei parchi di divertimento per adulti, un passatempo per quel che resta della pausa pranzo, posti dove si va a fare un giro. Dispiace che chiudano perché non si potranno più annusare i libri, perché i vecchi lirai di una volta ormai ricchi sfondati non avranno più un posto dove mostrare ai giornalisti amici le copie della loro ultima fatica.
E con argomenti come questo vorreste difendere il mio posto di lavoro?

sabato 4 maggio 2013

Dice: il problema è che oggi non c'è più la capacità di distinguere quello che è giusto da quello che è sbagliato e c'è molta confusione persino sul significato di giusto e sbagliato, e qualcuno dice anche che giusto e sbagliato non esiste, è soggettivo. E allora questo post serve per mettere in chiaro che:

E' SBAGLIATO
fare la scorta di romanzi per l'estate e poi quando si va alla cassa chiedere di fatturare tutto alla ditta mettendo come causale "acquisto di libri tecnici" (su questa cosa spero di tornarci perché mi manda veramente in bestia);

E' SBAGLIATO
stare mezz'ora nel settore turismo, spulciare tutte le guide turistiche su Budapest (quest'anno va Budapest), prendere appunti su indirizzi e orari, fare fotografie col cellulare delle schede più interessanti... e poi uscire dicendo che volevate solo farvi un'idea!

E' SBAGLIATO
chiedere se per favore si può avere un foglietto e magari una biro che devo segnarmi una cosa e poi fottersi la biro;

E' SBAGLIATO
girare tutta la libreria, guardare, sfogliare, scellophanare, fare una lista dettagliata dei libri che interessano e poi andare a casa e ordinarli su Amazon.

Fine dello sfogo, grazie.

lunedì 29 aprile 2013

Diego Galdino
Il primo caffè del mattino
Sperling & Kupfer 2013

Accompagnato dalla disapprovazione delle mie colleghe mi sono portato a casa questo libro. Perché lo fai? mi hanno chiesto preoccupate e io, che volevo solo leggere qualcosa di leggero, anche un po' romantico, e mi divertiva il fatto che fosse ambientato a Roma, da dove manco da troppo tempo, alla fine mi sono giustificato dicendo la cosa più stupida: se ne parla su Twitter...
Il che era anche vero, e mi serva da lezione.
Ho capito subito che l'impresa sarebbe stata dura, ma avevo dalla mia una ferma determinazione a portare a termine l'impresa ad ogni costo pur di potermi presentare dalle colleghe e dire trionfante: devo dire che non è per niente male! e guadagnarmi così un po' di rispetto dopo una serie di letture che, lo ammetto, hanno minato la mia credibilità di libraio (ho letto un Newton e un Salani, e non aggiungo altro).
Avrei chiuso un occhio su tutto, lo ripeto, ma a pagina 90 è successo qualcosa di irreparabile che mi ha costretto a mettere da parte l'indulgenza e prendere in mano la frusta.
"Ma un rumore lo avvertì che qualcuno stava entrando nel bar, qualcuno con due occhi verdi che non gli bastavano mai, e siccome l'amore ha l'amore come solo argomento, Massimo si dimenticò della domanda che stava per fare..."
Copiare De Andrè. Plagiare De Andrè. Non si può. Non si fa. Che poi non sapremo mai se quel verso è di De Andrè o di Fossati, ma questo è un altro discorso. E allora veniamo a noi.
La prima cosa evidente è che non c'è alcun tentativo di definizione dei personaggi né dal punto di vista psicologico né tantomeno fisico. Tutto quello che sappiamo di Genevieve, la protagonista femminile, è che ha capelli biondi, lentiggini e onnipresenti occhi verdi (ogni volta che entra in scena ci viene ricordato il loro colore). Del protagonista maschile non sappiamo niente, solo che è "belloccio come pochi" (definizione della sorella, p. 19). Proseguendo nella lettura Massimo, questo il suo nome, diventa veramente indecifrabile. Tralasciamo il fatto che sul retro di copertina sia definito "scapestrato" senza alcun riscontro nel racconto; quello che fa e che dice lo qualificano irrimediabilmente come il classico timido impacciato, imbranato con le donne ma "uomo da sposare" (sempre definizione della sorella). Se non fosse che a metà del libro veniamo a sapere che "Massimo era un uomo di mondo e aveva la sua esperienza" (p. 146). Un uomo di mondo? Uno che lavora dalla mattina alla sera e per rilassarsi prima di andare a letto... guarda la televisione? Sarà... Fatto sta che con due righe l'autore pensa di ricostruire il personaggio e rendere credibile la notte d'amore che i protagonisti passano sulla terrazza del palazzo (sul cemento). Ovviamente non basta.
I personaggi di contorno sono praticamente solo nomi associati a un mestiere: Gino il macellaio, ad esempio. Fortunatamente il vezzo di mettere tra parentesi il caffè preferito da ognuno viene presto abbandonato; forse nelle intenzioni dell'autore dovrebbe servire per definire meglio il carattere degli avventori, ma visto che di carattere proprio non si può parlare...
La vicenda si svolge a Roma, per la precisione nella piazza di Santa Maria in Trastevere. I protagonisti si allontanano raramente e quelle poche volte sembra stiano seguendo un itinerario del Touring: Fontana di Trevi, l'isola Tiberina... I personaggi secondari devono necessariamente far sentire qualche accenno di romanesco ma l'effetto è piuttosto forzato, come quando qualcuno che parla abitualmente in italiano usa qualche espressione dialettale per darsi un tono. Pensandoci bene: Lino, Alfredo, Gino, Rina, Antonio, Franco... Ma siamo a Roma o a Milano? E poi che razza di lavori: l'idraulico, il falegname, la sarta, la fioraria, il pasticcere... Al confronto la Parigi di Ameliè sembra uscita da un servizio di Santoro.
Insomma, per sintetizzare, in questo romanzo non c'è una cosa che sia riuscita. Personaggi stereotipati e dai nomi banali; nessuno che faccia nulla se non fare e bere caffé nell'unico bar di Trastevere chiuso la domenica (ma quando mai?); nessuna volontà di descrivere personaggi o situazioni rifugiandosi piuttosto nell'evocazione di emozioni e ricordi del lettore garantita dal ricorso a canzoni, film e libri. Dialoghi perlopiù inconcludenti, con abissi di imbarazzante vaquità nella sequenza della lettura del diario. Stendiamo un velo pietoso sulla trama.
E complimenti a Catena Fiorello che con la sua fascetta ci toglie il dubbio se sia il caso di leggere i suoi libri.
Ho notato che molti scrittori si rifanno alla loro esperienza professionale per scrivere il loro romanzo d'esordio ma troppo spesso si dimenticano che scrivere significa avere una storia da raccontare, e sarebbe già qualcosa, e poi saperla raccontare, che è tutto un altro paio di maniche.
Dimmi che caffè bevi e ti dirò chi sei? Mi dispiace, la letteratura, come la realtà, è molto più complicata.

PS. Se qualcuno alla Sperling avesse letto il libro forse avrebbe scelto un titolo diverso e si sarebbe evitata una frase come questa nel risvolto di copertina: "Ogni mattina, all'alba, [Massimo] attraversa le vie della città ancora addormentate, dove si sente il profumo del pane appena sfornato, e raggiunge il suo bar. Lì lo aspetta il primo caffè della giornata, quello dall'aroma più intenso, e dal sapore più buono..."; come dice più volte l'autore per bocca del suo protagonista, il primo caffè della giornata si butta, per tradizione. E poi tutti sanno che il primo caffè non è mai troppo buono, un po' come i libri.

martedì 2 aprile 2013

Contro le fascette

Da quando frequento il reparto di narrativa sono diventato ancora più insofferente nei confronti delle fascette. Nella libreria precedente avevo a che fare con libri di saggistica e bene o male la fascetta era limitata. La trovavi quasi solamente sui libri di giornalisti famosi e la trattavi come un ospite indesiderato: sopportavi finché non ne potevi più, e allora la facevi sparire. Una mia ex collega strappava fascette come certe persone fanno scoppiare le palline di cellophan, in modo automatico e quasi compulsivo. Ricordo che alla fine dell'inventario sul pavimento rimanevano i cadaveri di tutte le fascette che si erano trovate involontariamente fra il lettore ottico e il codice a barre del libro. Ho sempre considerato la fascetta come un semplice ostacolo al mio lavoro, mai come veicolo di informazione.
La fascetta, come detto, si piazza sempre sul codice a barre, come se ne fosse attratta da una calamita. Voi direte: vabbè, basta spostarla un po'... Sì, se fosse per un libro. Ma quando devi fare una resa, magari pesante, di quelle che si fanno adesso, e devi spostare un po' la fascetta di quattro o cinquecento libri, capisci che un po' ti prudono anche le mani. Come se non bastasse ci sono editori che pensano che il vero valore del libro non sia quello espresso in euro, parlano del contenuto, del valore intrinseco... e per sottolineare questa loro lontananza dal vile denaro stampano il prezzo del libro nel risvolto interno della sovracopertina. Già questo è fastidioso per il libraio che deve caricare i libri e controllare il prezzo; diventa imbarazzante quando, davanti a certi clienti che non vedono il prezzo dove si aspettano che sia, il libraio è costretto a mostrare loro quanto siano inadatti al mondo contemporaneo e globalizzato semplicemente aprendo il libro. La fascetta, in questi casi, è il colpo di grazia.
Come detto, da un po' di tempo a questa parte le fascette sono così tante che toglierle è diventato un lavoro sfiancante. L'altro giorno osservavo lo scaffale dei romanzi Garzanti: tutti, dico, tutti con una fascetta gialla. Sembrava di guardare lo scaffale di una biblioteca, con le etichette in costa per la segnatura. Poi, quando escono le novità, capita anche di leggere cosa ci scrivono sopra. Ecco: la fascetta è una zona franca, dove poter dire quello che si vuole, dove chiunque può spararla grossa tanto si sa che è una fascetta e nessuno ci crede.

cvc

domenica 27 gennaio 2013

Lezione di pedagogia

Lezione di pedagogia di due delle mie colleghe.
Arriva in cassa un bambino che stringe in mano un libro, lo sventola evidentemente soddisfatto dell'ennesimo successo dei suoi capricci, sgomita, per quanto può, si fa largo tra la gente in coda (sì, gente in coda alla cassa, e allora?) e urla, con quella vocina acuta che solo oggetti così piccoli e di solito inanimati possono produrre un imperativo "Devo pagare!", tra l'orgoglio dei genitori e i sorrisi dei clienti in coda.
La mia collega in cassa non lo guarda nemmeno e scandisce col massimo distacco: "Qui c'è la fila, mettiti in coda e quando è il tuo turno puoi pagare".
Gelo di tutto il negozio.
Il bambino, forse preso in contropiede da questa inaspettata manifestazione di indifferenza ai propri bisogni primari, si incolonna ordinatamente nella fila dell'altra collega in cassa (ho provato una volta a chiamarle "cassiere", per poco non mi menavano...), pensando di avere miglior fortuna. Arriva il suo turno. Passa il libro alla collega e nel mentre non perde occasione per attaccarle un bottone che neanche i pensionati della domenica, e si sgola come se dovesse farsi sentire fino in piazza. La mia collega lo guarda e gli urla letteralmente sulla testa, vista la differenza di statura: "Oh, non sono mica sorda, smettila di gridare!".
Inutile dire che da questa esperienza potenzialmente traumatizzante il piccolo non ha riportato né conseguenze né miglioramenti rispetto alla sua idea deviata di comunicazione. I genitori se ne sono usciti soddisfatti di avere un figlio che sa farsi valere. I clienti, se ancora avevano dei dubbi, adesso sanno con chi hanno a che fare. Due a zero per noi.

lunedì 21 gennaio 2013

Negli ultimi mesi (erano settimane quando ho iniziato a scrivere questo post...) sono successe alcune cose che mi hanno tenuto più lontano del solito da questo blog. Ho persino pensato che sarebbe stato il caso di chiuderlo, per motivi che cercherò di spiegare dopo, e che se proprio volevo continuare a scrivere avrei potuto aprirne un altro, di natura un po' diversa. Non è detto che non lo faccia in futuro, ma per il momento la pigrizia è più forte e quindi torno a farmi vivo in questo spazio buio che io stesso ho voluto così.
Raccontare quello che è successo dall'ultimo post a oggi richiederà un po' di tempo anche perché sebbene io non ami particolarmente scrivere (e farlo mi costi non poca fatica) quando mi ci metto riesco a perdere la facoltà della sintesi. Ne è una prova il fatto che a questo punto avrei dovuto essere già a metà del racconto, e invece non ho ancora nemmeno incominciato. Rimedio subito.
Da quasi un anno, diciamo dal Natale dell'anno scorso, la libreria non va molto bene. Qualche anno fa le persone che venivano assunte si dovevano sottoporre alla trafila stage, contratto a tempo determinato, licenziamento (o come lo chiamano ipocritamente quasi tutti, "sospensione"), riassunzione sempre a tempo determinato, ma alla fine c'era la certezza dell'agognato tempo indeterminato. Non è che l'azienda dimostrasse di tenerci proprio così tanto alle sue giovani reclute, però alla fine (e sto parlando di tre anni e mezzo abbondanti di precariato, di cui sei mesi da stagisti) alla fine, dicevo, le assumeva.
Io ero fra quelli che fino a un anno fa poteva dormire sonni tranquilli da questo punto di vista. Non ero certo il miglior libraio in circolazione ma me la cavavo, nessuno si era mai lamentato di me, molte volte avevo l'impressione che la mia presenza fosse persino preferita a quella di altri colleghi più anziani, quindi... Magari fare il libraio a vita non era la mia massima aspirazione, però era sempre qualcosa di sicuro. Come detto, da un anno a questa parte le cose sono cambiate. L'azienda è stata presa in contropiede dalla crisi (chi l'avrebbe mai detto...), i dirigenti, che non hanno mai messo piede in negozio, hanno deciso che dovevano intervenire, che ci volevano più ragionieri e meno librai, che insomma la strada per la salvezza passava dalle loro parti. Dopo che hanno capito come funzionava il meccanismo, la prima cosa che hanno detto è stata questa: se i libri che abbiamo in negozio li possiamo rendere e ci vengono riaccreditati, allora è come se fossero soldi liquidi immobilizzati, soldi tenuti lì a far niente. Rendiamo tutto il possibile!
Così abbiamo iniziato una campagna di rese storica. Divertente, tutto sommato, ma si sapeva che la soluzione non era così semplice.
Seconda pensata: è inutile ordinare cento copie di un libro se nel primo mese se ne vendono dieci; ordinatene quindici e poi al massimo rifornite. Discorsi come sovrasconti, ristampe, imprevedibilità del mercato, Vespa che si vende di sicuro perché è Vespa... tutto troppo difficile.
Inutile dire che gli editori si sono presentati col coltello tra i denti: ma come, aumenti le rese e riduci gli ordini? Figuratevi gente come Giunti o Mondadori come devono averla presa!
Prima dell'estate ha iniziato a circolare la voce che i contratti a tempo determinato non sarebbero stati rinnovati e dopo qualche giorno se ne è avuta una parziale conferma: un ragazzo con il contratto in scadenza, dopo tre anni di lavoro è stato lasciato a casa. Tanti saluti e grazie.
E allora anch'io ho iniziato ad avere qualche dubbio. Vuoi vedere, mi son detto, che qui va a finire che mi ritrovo disoccupato? L'idea ha iniziato a girarmi per la testa, di continuo, e mi sono reso subito conto che la cosa più preoccupante era il senso di leggerezza che questa prospettiva mi stava provocando. Negli stessi giorni una ragazza, anche lei precaria, anche lei col contratto in scadenza e con buone prospettive di assunzione ha fatto i bagagli e se n'è andata. Motivazione: non ce la facevo più a lavorare in questo posto. Lei con un sorriso largo da qui a là, io con la mandibola crollata e la netta sensazione che non avrei mai avuto il coraggio di prendere una decisione simile.
D'altra parte io avevo sempre la via di fuga della scuola. Sempre più incerta, visti i tempi, e ormai declassata, appunto, a scelta di ripiego. Però c'era.
Così, prima di andare in ferie, mi sono presentato dal direttore e gli ho chiesto con molta onestà di sapere che intenzioni avesse l'azienda rispetto al mio contratto perché nel caso di una convocazione per una supplenza volevo sapere quale delle due strade mi convenisse battere. E lui mi ha risposto con altrettanta onestà che se ricevevo una chiamata da una scuola mi conveniva andarci di corsa. Un licenziamento tra persone civili.
Allora ho inziato a pensare al da farsi. L'idea di lasciare questa libreria mi dispiaceva sempre meno, lo ammetto, e cominciavo anche ad accettare che tutte le cose inconfessabili che mi erano passate per la testa rispetto a questo lavoro non erano poi così sbagliate. Non sto a ripeterle perché non ho fatto altro che scrivere di questo. Ma un conto è scrivere, un altro iniziare a crederci.
Sapevo che i colleghi ci sarebbero rimasti male, ma quante persone avevo visto arrivare e poi andarsene, sempre con lo stesso sorriso stampato in faccia? Dalla mia avevo il pretesto che non ero io ad andarmene ma loro a cacciarmi. Così ho iniziato a scherzarci sopra, un po' per rendere la cosa meno traumatica per loro (insomma, tre anni insieme alla fine vogliono dire qualcosa) e un po' perché nella mia incoscienza ero io il primo a non essere preoccupato. In fin dei conti lasciavo un lavoro che non mi esaltava, che non aveva prospettive, precario, fatto in un ambiente diventato pesante per via della crisi, in una città che non ho mai amato, che mi ha chiesto forse più sacrifici di quelli che meritasse... Insomma contavo di trovare qualcosa di meglio, perché di peggio, in quel momento, non riscivo ad immaginare niente.
E sempre per scherzo ho iniziato a dire ai rappresentanti di guardarsi attorno perché la mia ora stava per suonare e se qualche libreria aveva bisogno di una mano per Natale io sarei stato presto disponibile.
Detto, fatto. Vengo a sapere che in una libreria lombarda stanno cercando gente. Maternità, o cose del genere, comunque sempre per poco tempo. Mando il curriculum, non si sa mai. E intanto continuo a tempestare le scuole lombarde di mail per vedere se a qualcuno interessa un giovane insegnante inesperto per una classe di concorso in via di estinzione.
Siamo così arrivati alla fine di settembre, meno di un mese alla scadenza del contratto. Finalmente ricevo la comunicazione ufficiale e definitiva del mio licenziamento. Non è che una conferma di quanto sapevo già, quindi nessuna scenata isterica. Non faccio una piega, anzi cerco di togliere dall'imbarazzo il direttore facendogli capire che anch'io, a ruoli invertiti, lo avrei licenziato. E intanto penso che quest'anno mi godrò il Natale come tutti, andrò in giro, leggerò molto... In fondo ho fatto la formichina fino adesso, potrò permettermi qualche giorno da cicala, no?
No. Il giorno dopo, giuro, ricevo una mail dalla libreria a cui avevo mandato l'unico curriculum non destinato ad una scuola. Era un mercoledì. Mi invitano a fare un colloquio il giorno dopo, che guarda caso è il mio giorno libero. Così vado, faccio due chiacchiere col direttore ma capisco che questo ha già deciso di prendermi. Subito, dal lunedì successivo. Son cose che fanno piacere.
Torno a casa pensando che dovrò rinunciare ad andare in giro, che continuerò a non leggere i libri che ho comprato e soprattutto che passerò un altro Natale con la testa bassa a lavorare. Ma la soddisfazione di presentarsi il giorno dopo con la lettera di dimissioni, quella è una cosa che tutti una volta nella vita dovrebbero concedersi. Lapidaria: "Con la presente rassegno le mie dimissioni con effetto immediato e porgo distinti saluti". Così venerdì, mentre i colleghi non sapevano con che faccia guardarmi, sono andato dal direttore, gli ho lasciato la lettera, e poi sono tornato a fare il mio lavoro, perché oltre tutto me ne volevo andare da eroe, del tipo professionista fino alla fine. Unico neo: l'azienda ha voluto l'ultima parola e nel pomeriggio mi ha fatto avere una lettera in cui accettava le mie dimissioni. Fastidioso, ma non più di tanto.
La prossima volta che farò un colloquio dovrò portarmi un foglio con scritte le domande importanti da fare e un registratore per ricordarmi le risposte. Non mi spiego come io abbia potuto essere così superficiale nel momento in cui si parlava di orario di lavoro e stipendio. Forse stava succedendo tutto troppo in fretta. Comunque, dopo aver accettato il lavoro, mi sono reso conto che per me era semplicemente impossibile rispettare gli orari del negozio muovendomi con i mezzi pubblici. C'è da dire che si trattava di attraversare mezza Lombardia tutti i giorni, domeniche comprese, e checché se ne dica, coi mezzi ci vuole un po'. Dopo un giorno di lavoro sono andato dal direttore e gli ho detto: non so se ce la faccio. E lui: pensaci un paio di giorni, ma poi dammi una risposta definitiva. E così sono tornato a casa pensando che forse a Natale sarei andato in giro, ma non mi sarei divertito così tanto come speravo. Mi sentivo come quando all'università tornavo a casa senza aver dato l'esame perché sapevo di non essere preparato. Uguale.
Comunque dovevo provarci. Mi sono messo al computer e ho cercato tutte le soluzioni per arrivare sul posto di lavoro rispettando gli orari. Arrivare non era un problema, ma tornare a casa, uscendo dal negozio alle 19.30, era semplicemente impossibile. Muoversi in auto sarebbe stata l'unica soluzione ma non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di me schiantato contro un palo della luce alle nove di sera con la nebbia. E poi io sono un pendolare, appena sento il motore acceso mi addormento!
In questi giorni di dubbi che a me sembravano enormi mi sono confrontato con due situazioni che forse hanno contribuito a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Ho saputo che due persone che conosco e che hanno il cosiddetto posto fisso in realtà erano messe peggio di me: la prima in mobilità con pessime prospettive, la seconda senza stipendio da quattro mesi. Non so quanto abbia pesato sapere queste cose, ma voglio credere che mi abbiano aiutato a prendere la decisione che ho preso.
Quando ripenso alla notte che ho passato non posso fare a meno di associarla al ricordo letterario della notte dell'Innominato. Che il vecchio Manzoni ci mettesse lo zampino era anche prevedibile, visto che mi aveva squadrato per tre anni tutte le mattine con quel suo sguardo severo. Ogni volta che lo fissavo sentivo come una voce di rimprovero: "Ancora qui? Ma non dovevi fare l'insegnante?" E poi, non so perché, si trasformava nella voce del Commendatore con quel suo "Pentiti!" che mi accompagnava fino alla timbratrice. Ma questa è acqua passata, torniamo a noi.
Mi ero adddormentato con l'idea di andare al lavoro, salutare e ringraziare; invece una volta di fronte al direttore ho detto: "Ho deciso di trasferirmi qui, dammi qualche giorno per trovare un appartamento in affitto". Alla fine c'è voluto veramente poco: ho scelto a caso un'agenzia, ho fatto un po' il furbo dicendo che l'appartemento mi serviva per poco tempo e alla fine ho spuntato un buon prezzo per un bilocale in centro. Un buon prezzo, vale a dire più di metà del mio stipendio.
Riassumendo: nel giro di quindici giorni ho cambiato lavoro e casa. Per uno come me, non è poco.
A questo punto si pone il problema: ha senso continuare con questo blog? Che detto in forma accademica suona: sussistono ancora i presupposti che hanno portato alla nascita del blog e che ne hanno per tanto tempo giustificato l'esistenza? Per qualche tempo la risposta mi è sembrata negativa.
Il blog era nato come valvola di sfogo di un libraio che non potendo abbandonare il suo mestiere (o non avendone il coraggio, che poi è la stessa cosa, ma meno frustrante) sparava a zero su tutta quanta la filiera dell'editoria e godeva particolarmente nel prendersela con i clienti. Posso aver esagerato in certi giudizi, lo ammetto, ma tutto quello che ho scritto è frutto della mia esperienza e chi ha letto certe storie può ben capire se c'era bisogno di sfogarsi.
Da quando sono nella mia nuova libreria le cose sono cambiate. Sarà che è cambiata la città, più piccola, e di conseguenza sono cambiati i clienti; sarà che sono cambiati i colleghi (adesso sono quasi tutte donne e nonostante questo si va d'accordo); sarà che sono cambiati i libri (qui c'è tanta narrativa e poca saggistica), sarà che sono cambiato io, chi può dirlo? Insomma, piano piano, con molta cautela, posso dire che mi sto riconciliando con il mio lavoro. Leggo un po' di più, soprattutto romanzi, e sto facendo delle belle scoperte aiutato dalle mie colleghe, che sono veramente brave. A volte sembro uno alle prime armi, guardo interdetto i clienti che mi chiedono l'ultimo di Malvaldi (mai sentito), e imparo un sacco di cose nuove.
Vale la pena continuare il blog? Credo di sì, anche se forse il tono sarà un po' diverso. Servirà più a me che a chi lo legge, ne sono sicuro, ma forse è sempre stato così. Cercherò di inserire qualche recensione in più e qualche sfogo in meno, ma non prometto niente. In pratica, andrà come deve andare, come sempre.