domenica 27 gennaio 2013

Lezione di pedagogia

Lezione di pedagogia di due delle mie colleghe.
Arriva in cassa un bambino che stringe in mano un libro, lo sventola evidentemente soddisfatto dell'ennesimo successo dei suoi capricci, sgomita, per quanto può, si fa largo tra la gente in coda (sì, gente in coda alla cassa, e allora?) e urla, con quella vocina acuta che solo oggetti così piccoli e di solito inanimati possono produrre un imperativo "Devo pagare!", tra l'orgoglio dei genitori e i sorrisi dei clienti in coda.
La mia collega in cassa non lo guarda nemmeno e scandisce col massimo distacco: "Qui c'è la fila, mettiti in coda e quando è il tuo turno puoi pagare".
Gelo di tutto il negozio.
Il bambino, forse preso in contropiede da questa inaspettata manifestazione di indifferenza ai propri bisogni primari, si incolonna ordinatamente nella fila dell'altra collega in cassa (ho provato una volta a chiamarle "cassiere", per poco non mi menavano...), pensando di avere miglior fortuna. Arriva il suo turno. Passa il libro alla collega e nel mentre non perde occasione per attaccarle un bottone che neanche i pensionati della domenica, e si sgola come se dovesse farsi sentire fino in piazza. La mia collega lo guarda e gli urla letteralmente sulla testa, vista la differenza di statura: "Oh, non sono mica sorda, smettila di gridare!".
Inutile dire che da questa esperienza potenzialmente traumatizzante il piccolo non ha riportato né conseguenze né miglioramenti rispetto alla sua idea deviata di comunicazione. I genitori se ne sono usciti soddisfatti di avere un figlio che sa farsi valere. I clienti, se ancora avevano dei dubbi, adesso sanno con chi hanno a che fare. Due a zero per noi.

lunedì 21 gennaio 2013

Negli ultimi mesi (erano settimane quando ho iniziato a scrivere questo post...) sono successe alcune cose che mi hanno tenuto più lontano del solito da questo blog. Ho persino pensato che sarebbe stato il caso di chiuderlo, per motivi che cercherò di spiegare dopo, e che se proprio volevo continuare a scrivere avrei potuto aprirne un altro, di natura un po' diversa. Non è detto che non lo faccia in futuro, ma per il momento la pigrizia è più forte e quindi torno a farmi vivo in questo spazio buio che io stesso ho voluto così.
Raccontare quello che è successo dall'ultimo post a oggi richiederà un po' di tempo anche perché sebbene io non ami particolarmente scrivere (e farlo mi costi non poca fatica) quando mi ci metto riesco a perdere la facoltà della sintesi. Ne è una prova il fatto che a questo punto avrei dovuto essere già a metà del racconto, e invece non ho ancora nemmeno incominciato. Rimedio subito.
Da quasi un anno, diciamo dal Natale dell'anno scorso, la libreria non va molto bene. Qualche anno fa le persone che venivano assunte si dovevano sottoporre alla trafila stage, contratto a tempo determinato, licenziamento (o come lo chiamano ipocritamente quasi tutti, "sospensione"), riassunzione sempre a tempo determinato, ma alla fine c'era la certezza dell'agognato tempo indeterminato. Non è che l'azienda dimostrasse di tenerci proprio così tanto alle sue giovani reclute, però alla fine (e sto parlando di tre anni e mezzo abbondanti di precariato, di cui sei mesi da stagisti) alla fine, dicevo, le assumeva.
Io ero fra quelli che fino a un anno fa poteva dormire sonni tranquilli da questo punto di vista. Non ero certo il miglior libraio in circolazione ma me la cavavo, nessuno si era mai lamentato di me, molte volte avevo l'impressione che la mia presenza fosse persino preferita a quella di altri colleghi più anziani, quindi... Magari fare il libraio a vita non era la mia massima aspirazione, però era sempre qualcosa di sicuro. Come detto, da un anno a questa parte le cose sono cambiate. L'azienda è stata presa in contropiede dalla crisi (chi l'avrebbe mai detto...), i dirigenti, che non hanno mai messo piede in negozio, hanno deciso che dovevano intervenire, che ci volevano più ragionieri e meno librai, che insomma la strada per la salvezza passava dalle loro parti. Dopo che hanno capito come funzionava il meccanismo, la prima cosa che hanno detto è stata questa: se i libri che abbiamo in negozio li possiamo rendere e ci vengono riaccreditati, allora è come se fossero soldi liquidi immobilizzati, soldi tenuti lì a far niente. Rendiamo tutto il possibile!
Così abbiamo iniziato una campagna di rese storica. Divertente, tutto sommato, ma si sapeva che la soluzione non era così semplice.
Seconda pensata: è inutile ordinare cento copie di un libro se nel primo mese se ne vendono dieci; ordinatene quindici e poi al massimo rifornite. Discorsi come sovrasconti, ristampe, imprevedibilità del mercato, Vespa che si vende di sicuro perché è Vespa... tutto troppo difficile.
Inutile dire che gli editori si sono presentati col coltello tra i denti: ma come, aumenti le rese e riduci gli ordini? Figuratevi gente come Giunti o Mondadori come devono averla presa!
Prima dell'estate ha iniziato a circolare la voce che i contratti a tempo determinato non sarebbero stati rinnovati e dopo qualche giorno se ne è avuta una parziale conferma: un ragazzo con il contratto in scadenza, dopo tre anni di lavoro è stato lasciato a casa. Tanti saluti e grazie.
E allora anch'io ho iniziato ad avere qualche dubbio. Vuoi vedere, mi son detto, che qui va a finire che mi ritrovo disoccupato? L'idea ha iniziato a girarmi per la testa, di continuo, e mi sono reso subito conto che la cosa più preoccupante era il senso di leggerezza che questa prospettiva mi stava provocando. Negli stessi giorni una ragazza, anche lei precaria, anche lei col contratto in scadenza e con buone prospettive di assunzione ha fatto i bagagli e se n'è andata. Motivazione: non ce la facevo più a lavorare in questo posto. Lei con un sorriso largo da qui a là, io con la mandibola crollata e la netta sensazione che non avrei mai avuto il coraggio di prendere una decisione simile.
D'altra parte io avevo sempre la via di fuga della scuola. Sempre più incerta, visti i tempi, e ormai declassata, appunto, a scelta di ripiego. Però c'era.
Così, prima di andare in ferie, mi sono presentato dal direttore e gli ho chiesto con molta onestà di sapere che intenzioni avesse l'azienda rispetto al mio contratto perché nel caso di una convocazione per una supplenza volevo sapere quale delle due strade mi convenisse battere. E lui mi ha risposto con altrettanta onestà che se ricevevo una chiamata da una scuola mi conveniva andarci di corsa. Un licenziamento tra persone civili.
Allora ho inziato a pensare al da farsi. L'idea di lasciare questa libreria mi dispiaceva sempre meno, lo ammetto, e cominciavo anche ad accettare che tutte le cose inconfessabili che mi erano passate per la testa rispetto a questo lavoro non erano poi così sbagliate. Non sto a ripeterle perché non ho fatto altro che scrivere di questo. Ma un conto è scrivere, un altro iniziare a crederci.
Sapevo che i colleghi ci sarebbero rimasti male, ma quante persone avevo visto arrivare e poi andarsene, sempre con lo stesso sorriso stampato in faccia? Dalla mia avevo il pretesto che non ero io ad andarmene ma loro a cacciarmi. Così ho iniziato a scherzarci sopra, un po' per rendere la cosa meno traumatica per loro (insomma, tre anni insieme alla fine vogliono dire qualcosa) e un po' perché nella mia incoscienza ero io il primo a non essere preoccupato. In fin dei conti lasciavo un lavoro che non mi esaltava, che non aveva prospettive, precario, fatto in un ambiente diventato pesante per via della crisi, in una città che non ho mai amato, che mi ha chiesto forse più sacrifici di quelli che meritasse... Insomma contavo di trovare qualcosa di meglio, perché di peggio, in quel momento, non riscivo ad immaginare niente.
E sempre per scherzo ho iniziato a dire ai rappresentanti di guardarsi attorno perché la mia ora stava per suonare e se qualche libreria aveva bisogno di una mano per Natale io sarei stato presto disponibile.
Detto, fatto. Vengo a sapere che in una libreria lombarda stanno cercando gente. Maternità, o cose del genere, comunque sempre per poco tempo. Mando il curriculum, non si sa mai. E intanto continuo a tempestare le scuole lombarde di mail per vedere se a qualcuno interessa un giovane insegnante inesperto per una classe di concorso in via di estinzione.
Siamo così arrivati alla fine di settembre, meno di un mese alla scadenza del contratto. Finalmente ricevo la comunicazione ufficiale e definitiva del mio licenziamento. Non è che una conferma di quanto sapevo già, quindi nessuna scenata isterica. Non faccio una piega, anzi cerco di togliere dall'imbarazzo il direttore facendogli capire che anch'io, a ruoli invertiti, lo avrei licenziato. E intanto penso che quest'anno mi godrò il Natale come tutti, andrò in giro, leggerò molto... In fondo ho fatto la formichina fino adesso, potrò permettermi qualche giorno da cicala, no?
No. Il giorno dopo, giuro, ricevo una mail dalla libreria a cui avevo mandato l'unico curriculum non destinato ad una scuola. Era un mercoledì. Mi invitano a fare un colloquio il giorno dopo, che guarda caso è il mio giorno libero. Così vado, faccio due chiacchiere col direttore ma capisco che questo ha già deciso di prendermi. Subito, dal lunedì successivo. Son cose che fanno piacere.
Torno a casa pensando che dovrò rinunciare ad andare in giro, che continuerò a non leggere i libri che ho comprato e soprattutto che passerò un altro Natale con la testa bassa a lavorare. Ma la soddisfazione di presentarsi il giorno dopo con la lettera di dimissioni, quella è una cosa che tutti una volta nella vita dovrebbero concedersi. Lapidaria: "Con la presente rassegno le mie dimissioni con effetto immediato e porgo distinti saluti". Così venerdì, mentre i colleghi non sapevano con che faccia guardarmi, sono andato dal direttore, gli ho lasciato la lettera, e poi sono tornato a fare il mio lavoro, perché oltre tutto me ne volevo andare da eroe, del tipo professionista fino alla fine. Unico neo: l'azienda ha voluto l'ultima parola e nel pomeriggio mi ha fatto avere una lettera in cui accettava le mie dimissioni. Fastidioso, ma non più di tanto.
La prossima volta che farò un colloquio dovrò portarmi un foglio con scritte le domande importanti da fare e un registratore per ricordarmi le risposte. Non mi spiego come io abbia potuto essere così superficiale nel momento in cui si parlava di orario di lavoro e stipendio. Forse stava succedendo tutto troppo in fretta. Comunque, dopo aver accettato il lavoro, mi sono reso conto che per me era semplicemente impossibile rispettare gli orari del negozio muovendomi con i mezzi pubblici. C'è da dire che si trattava di attraversare mezza Lombardia tutti i giorni, domeniche comprese, e checché se ne dica, coi mezzi ci vuole un po'. Dopo un giorno di lavoro sono andato dal direttore e gli ho detto: non so se ce la faccio. E lui: pensaci un paio di giorni, ma poi dammi una risposta definitiva. E così sono tornato a casa pensando che forse a Natale sarei andato in giro, ma non mi sarei divertito così tanto come speravo. Mi sentivo come quando all'università tornavo a casa senza aver dato l'esame perché sapevo di non essere preparato. Uguale.
Comunque dovevo provarci. Mi sono messo al computer e ho cercato tutte le soluzioni per arrivare sul posto di lavoro rispettando gli orari. Arrivare non era un problema, ma tornare a casa, uscendo dal negozio alle 19.30, era semplicemente impossibile. Muoversi in auto sarebbe stata l'unica soluzione ma non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di me schiantato contro un palo della luce alle nove di sera con la nebbia. E poi io sono un pendolare, appena sento il motore acceso mi addormento!
In questi giorni di dubbi che a me sembravano enormi mi sono confrontato con due situazioni che forse hanno contribuito a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Ho saputo che due persone che conosco e che hanno il cosiddetto posto fisso in realtà erano messe peggio di me: la prima in mobilità con pessime prospettive, la seconda senza stipendio da quattro mesi. Non so quanto abbia pesato sapere queste cose, ma voglio credere che mi abbiano aiutato a prendere la decisione che ho preso.
Quando ripenso alla notte che ho passato non posso fare a meno di associarla al ricordo letterario della notte dell'Innominato. Che il vecchio Manzoni ci mettesse lo zampino era anche prevedibile, visto che mi aveva squadrato per tre anni tutte le mattine con quel suo sguardo severo. Ogni volta che lo fissavo sentivo come una voce di rimprovero: "Ancora qui? Ma non dovevi fare l'insegnante?" E poi, non so perché, si trasformava nella voce del Commendatore con quel suo "Pentiti!" che mi accompagnava fino alla timbratrice. Ma questa è acqua passata, torniamo a noi.
Mi ero adddormentato con l'idea di andare al lavoro, salutare e ringraziare; invece una volta di fronte al direttore ho detto: "Ho deciso di trasferirmi qui, dammi qualche giorno per trovare un appartamento in affitto". Alla fine c'è voluto veramente poco: ho scelto a caso un'agenzia, ho fatto un po' il furbo dicendo che l'appartemento mi serviva per poco tempo e alla fine ho spuntato un buon prezzo per un bilocale in centro. Un buon prezzo, vale a dire più di metà del mio stipendio.
Riassumendo: nel giro di quindici giorni ho cambiato lavoro e casa. Per uno come me, non è poco.
A questo punto si pone il problema: ha senso continuare con questo blog? Che detto in forma accademica suona: sussistono ancora i presupposti che hanno portato alla nascita del blog e che ne hanno per tanto tempo giustificato l'esistenza? Per qualche tempo la risposta mi è sembrata negativa.
Il blog era nato come valvola di sfogo di un libraio che non potendo abbandonare il suo mestiere (o non avendone il coraggio, che poi è la stessa cosa, ma meno frustrante) sparava a zero su tutta quanta la filiera dell'editoria e godeva particolarmente nel prendersela con i clienti. Posso aver esagerato in certi giudizi, lo ammetto, ma tutto quello che ho scritto è frutto della mia esperienza e chi ha letto certe storie può ben capire se c'era bisogno di sfogarsi.
Da quando sono nella mia nuova libreria le cose sono cambiate. Sarà che è cambiata la città, più piccola, e di conseguenza sono cambiati i clienti; sarà che sono cambiati i colleghi (adesso sono quasi tutte donne e nonostante questo si va d'accordo); sarà che sono cambiati i libri (qui c'è tanta narrativa e poca saggistica), sarà che sono cambiato io, chi può dirlo? Insomma, piano piano, con molta cautela, posso dire che mi sto riconciliando con il mio lavoro. Leggo un po' di più, soprattutto romanzi, e sto facendo delle belle scoperte aiutato dalle mie colleghe, che sono veramente brave. A volte sembro uno alle prime armi, guardo interdetto i clienti che mi chiedono l'ultimo di Malvaldi (mai sentito), e imparo un sacco di cose nuove.
Vale la pena continuare il blog? Credo di sì, anche se forse il tono sarà un po' diverso. Servirà più a me che a chi lo legge, ne sono sicuro, ma forse è sempre stato così. Cercherò di inserire qualche recensione in più e qualche sfogo in meno, ma non prometto niente. In pratica, andrà come deve andare, come sempre.