martedì 29 dicembre 2009

Approfitto dei giorni di ferie che mi sono stati concessi e me ne vado in giro. Capito davanti alla libreria Pecorini. Mi ha sempre incuriosito perché loro sono anche distributori ed io li conoscevo soprattutto per questo.
«Quasi quasi entro» dico tra me.
Alla porta un cartello invitante: ingresso libero. La porta sembra di quelle vecchie, pesanti. Mi preparo con una piccola rincorsa e...
La porta è chiusa a chiave. Il mio tentativo maldestro ed incredibilmente rumoroso viene notato da una signora all'interno che mi apre impietosita. Se avessi saputo che la porta era chiusa non mi sarei mai nemmeno avvicinato. Ora mi tocca entrare per forza.
Spiego che sono entrato solo per curiosare e decido di non dire che sono un libraio. La signora è molto gentile e mi illustra com'è organizzata la libreria. Anche a me piaceva presentare il negozio, è un po' come far vedere la propria casa agli ospiti.
Mi guardo attorno. Una sala che sa di antico, libri di musica, volumi quasi di antiquariato e su un lato della sala un clavicembalo. «Ok, cinque minuti, giusto per far vedere che approvo l'idea, e poi me ne vado».
- Se vuole c'è anche il magazzino.
Il magazzino? Il magazzino di un distributore? Beh, quasi quasi...
Nel magazzino incontro la proprietaria. Con lei cedo, declino le mie generalità, il mio passato e il mio presente. Soprattutto il presente.
Anche stavolta mi confermo irresistibile con le signore di una certa età. Cominciamo a parlare di quello che parlano di solito i librai, mascherando in qualche modo la mia incompetenza con dei silenzi di approvazione.
Sto per andarmene quando la proprietaria mi chiede di lasciarle i miei dati. Il cellulare. L'indirizzo. Il titolo di studio.
Mi sembrano richieste un po' strane. Pazienza, penso, magari l'anno prossimo mi arriva a casa un pacco per Natale.
Quando all'ultima domanda rispondo di aver fatto il Classico ho già la mano sulla maniglia della porta.
- Allora devo farle vedere questo.
E tira fuori un Petrarca di Tallone. Lo apro. Lo tocco. Passo la mia mano sul primo sonetto, voi ch'ascoltate in rime sparse... Ripenso ai caratteri mobili, al museo di Cornuda, ai libri dell'Ottocento, alla tesi...
- Pochi libri, buoni, letti e tenuti bene.
E tira fuori un Boccaccio ed altre cose che non ricordo. Ha toccato le corde giuste, ma ormai è tardi.
Me ne vado soddisfatto.
Vedere e toccare. E il tempo che fa il suo mestiere.
Ecco perché certe cose si pagano care.
Ecco perché il libro non morirà, ancora per un po'.

lunedì 28 dicembre 2009

Carlo Maria Martini, Georg Sporschill
Conversazioni notturne a Gerusalemme
Mondadori 2008

Pensavo di leggere una meditazione sulla morte che si avvicina (il cardinal Martini ha una certa età...), un libro crepuscolare come l'immagine di Gerusalemme bruciata dal sole che occupa tutta la copertina, una riflessione sulla notte che si avvicina... niente di tutto questo.
La parola che ricorre più frequentemente credo sia "giovani". Ai giovani, alla loro educazione, ai loro dubbi, ai loro sentimenti è dedicato quasi interamente questo libro tanto che ad un certo punto ho pensato che la sua collocazione naturale nello scaffale di religione non fosse in realtà la più corretta. Potrebbe stare tranquillamente sullo scaffale dedicato ai problemi dell'adolescenza e persino su quello di pedagogia. Ci sono indicazioni utili per gli insegnanti, ed io ne so qualcosa.
Proseguendo nella lettura mi sono trovato a pensare che il successo di questo libro forse si deve anche ad una certa somiglianza, solo formale e non certo nei contenuti, con certi libri di santoni orientali che insegnano come essere felici e in pace con se stessi. La forma a domande e risposte sacrifica qualcosa della consequenzialità logica del ragionamento in favore di un'immediata fruibilità del contenuto. Non un lungo ragionamento di cui apprezzare il rigore, piuttosto una serie di pensieri su cui riflettere.
Non mancano le domande sulla Chiesa, sui problemi che oggi si trova a dover affrontare e qui si coglie un altro motivo del successo di questo libro: Martini non si tira indietro e ribadisce le sue posizioni che in una parola potrei definire "progressiste", una vera manna per chi va in cerca di polemiche ma anche un'occasione di riflettere seriamente per chi è in cerca di risposte sulle grandi questioni etiche e morali moderne. Magari per scoprire che certi problemi che oggi sembrano insormontabili hanno invece soluzioni semplici.
Cito a questo proposito un breve passaggio.
Come vescovo cattolico approverebbe la costruzione di un minareto [...]?
La funzione di un minareto è garantire che i musulmani possano essere chiamati alla preghiera. Il punto è quanti musulmani vivono nella comunità e pregano cinque volte al giorno. Se essi sono molti o la maggioranza, avranno bisogno del minareto, proprio come i cristiani hanno bisogno delle campane quando sono numerosi. Anch'essi non possono pretendere le campane se sono solo un gruppetto tra persone di confessione diversa.
Possibile che sia così semplice? Oggi abbiamo la tendenza a ridurre gli argomenti di discussione a questioni "di principio". Forse basterebbe un po' di sano e umano pragmatismo.

sabato 26 dicembre 2009

Anonimo
Fratelli d'Italia?
Battello stampatore 2009

Il libro è uscito di recente dalla clandestinità del passaparola grazie a qualche recensione sui giornali giusti oltre che su internet. Risultato: prima il libro non si trovava e tutti lo volevano, adesso che il libro ci è arrivato più nessuno lo cerca. La casa editrice ha creato un sito in fretta e furia (www.battellostampatore.it) dove il libro campeggia col sintetico riassunto che poi si trova anche in altri siti. Nessun codice ISBN, tanto per rendere l'idea.
La trama è semplice e ormai la sanno tutti: nel 2010 cade il Governo e il Veneto fa la secessione. Più che una trama, un'ipotesi di lavoro.
Su questa ipotesi l'anonimo autore sviluppa una serie di riflessioni di sorprendente acutezza, articolate ed in larga parte condivisibili.
Tutto nasce dalla domanda: perché si è arrivati a tutto questo? Facile immaginare che la spiegazione non sia semplice, che la ragione non sia una sola e che comunque, nonostante l'analisi, qualcosa continuerà a sfuggire, rimarrà nella zona oscura delle cose che non si possono prevedere. Mi è sembrato comunque particolarmente opportuno l'aver introdotto, come categoria di comprensione della realtà italiana, quella che l'autore chiama "narrazione". Non si tratta, come a prima vista potrebbe sembrare, del solito ritornello sui mass media che manipolano l'opinione pubblica e che si risolve in un'antitesi tra informazione e controinformazione. Semplificando possiamo definire la narrazione come "la realtà così come ce la raccontiamo". Artefici della narrazione sono in primo luogo i giornalisti ma anche i politici, gli opinionisti e tutti quelli che in qualche modo hanno accesso ai mezzi di comunicazione.
La narrazione coinvolge però anche l'autorappresentazione della realtà, la lettura che ne diamo per fare in modo che certe tessere del mosaico trovino la loro collocazione, che certi fatti abbiano una spiegazione o più semplicemente una giustificazione. La narrazione, in questo senso, possiede diversi livelli di profondità ma si polarizza su due estremi, la narrazione superficiale e la narrazione profonda, ovvero una maggiore o minore aderenza ai fatti. In entrambi i casi tuttavia siamo lontani dalla loro vera comprensione.
L'assuefazione al racconto ci fa sembrare normali cose che normali non sono come parlare di milioni di persone in piazza quando al massimo se ne contano qualche migliaia.
Attraverso la narrazione ci allontaniamo progressivamente dalla realtà fino a perdere la capacità di riconoscerla. E ci avviciniamo alla katastrophe.

lunedì 21 dicembre 2009

Diamo atto ai maghi delle previsioni del tempo di averci preso. La nevicata è stata prevista ed abbondantemente annunciata. I giornali si sono allarmati come sempre ma la strada, a onor del vero, è praticabile. Ma quante automobili, e quanti posti vuoti sull'autobus!
Guardo le jeep, i suv, le 4x4 tutte ordinatamente in colonna. Chissà se è vero quello che mi ha detto il capo, cioè che il sindaco di Londra avrebbe dichiarato che, ogni volta che vede uno sopra un suv, non può fare a meno di pensare che quello sia un cretino. L'aneddoto forse è falso, ma il giudizio è ineccepibile.
Comunque la situazione non è certo paragonabile a quella di quattro anni fa, quando le strade erano veramente impraticabili. Oggi si viaggia, forse in meno di quattro ore saremo a casa.
L'autista si fa prendere la mano, ogni tanto gli parte il posteriore del pullman.
Sente che può farcela e gli scoccia non provarci.
Per domani si parla di pioggia. Staremo a vedere.

giovedì 10 dicembre 2009

Paolo Jachia
La donna Cannone e l'Agnello di Dio
Ancora 2009

Quando il capo ha visto questo libro, dopo aver millantato di averlo conosciuto, ha concluso: «De Gregori non la prenderà bene» ma io non gli ho dato retta. Invece anche stavolta il capo aveva ragione.
È un peccato che un libro dall'argomento così interessante sia stato confezionato con tanta approssimazione.
Questa collana dell'Ancora mi è sempre piaciuta molto per la sua unicità nel panorama editoriale e forse è per questo che la lettura di questo libro mi ha così deluso.
Non mi riferisco solo ai refusi, che tutto sommato sono nella media, ma soprattutto alle imprecisioni nelle citazioni di canzoni che i fan di De Gregori conoscono a memoria. Per averne un esempio basta leggere i versi de "La donna cannone" sulla quarta di copertina.
Sono indeciso. Si tratta, a mio parere, di errori redazionali più che di scarsa preparazione dell'autore, come dimostra l'errore madornale nel titolo dell'album "Amore nel pomeriggio" circa a metà del libro, citato correttamente poche pagine prima.
Tuttavia potrebbe anche trattarsi di uno stratagemma per non pagare i diritti d'autore che proteggono i testi, ed in questo caso De Gregori farebbe bene ad arrabbiarsi, e non per i soldi ma per i futili motivi del delitto. Lo stesso autore si preoccupa di spiegare che i testi delle canzoni non vengono citati per intero proprio per questo motivo.
Comunque anche l'autore ci mette del suo, ripetendosi in più di un'occasione, come quando spiega che il primo capitolo è praticamente copiato da un suo saggio precedente.
Quanto all'analisi vera e propria, sembra tutto un po' eccessivo, a partire dal continuo ricorso alle citazioni dei versi che dovrebbero sostenere le tesi dell'autore.
In linea generale è evidente la presenza nei testi di un substrato culturale che si rifà alla tradizione cristiana ma questa evidenza non necessita di una dimostrazione, quanto piuttosto di una spiegazione. Perché ad esempio non sottolineare che la Bibbia e i Vangeli fanno parte di un patrimonio culturale condiviso degli Italiani e l'uso che De Gregori ne fa ha quasi sempre una funzione provocatoria e straniante? Pensiamo alla preghiera dei bambini davanti al Presepe, «Gesù bambino, fa che venga la pace» e che in De Gregori diventa «fa che venga la guerra».
Il problema non è che in De Gregori ci siano i richiami al Vangelo; il problema è che De Gregori questi richiami non li usa per comunicare i valori del Vangelo ma li svuota del loro significato "letterale" e li usa, al pari di espressioni prese da contesti diversi, come mattonelle per costruire nuovi significati. Decontestualizzando le immagini sacre si crea una sovrapposizione di significati che "apre" l'opera.
Mi sarebbe piaciuto che l'autore avesse affrontato questo tipo di analisi invece di limitarsi ad un elenco di corrispondenze.
Certo, alcune letture sono suggestive, soprattutto quella de "La Donna cannone" e di "Ninetto e la colonia" (ma sono anche originali?) ed alla fine rimane il sospetto che ci sia veramente «qualcosa che brucia in tutto questo fumo». Però non posso fare a meno di pensare che un lavoro del genere l'avrei potuto fare anch'io, e forse sarebbe anche venuto meglio.
Come se non bastasse, viene ampiamente citato un saggio di Roberto Vecchioni che, per quel poco che se ne può capire, è di ben altro spessore. Peccato sia solo una dispensa universitaria.

giovedì 26 novembre 2009

Federica Cecchini
Dalle colline. Le strade rosse del Rwanda
Edizioni dell'Arco 2007

Premessa necessaria: si giudica il libro e non l'argomento.
Altra premessa: difficilmente avrei letto un libro del genere (soprattutto durante l'assonnato viaggio mattutino in pullman) se non avessi contratto un obbligo morale verso il senegalese che me l'ha venduto per strada.
Fine delle premesse. Passiamo al libro.
Si tratta del diario dell'autrice scritto durante i suoi due anni di permanenza in Rwanda come operatrice di Medici Senza Frontiere.
I temi che si intrecciano sono tre. Il primo è il racconto di quello che è successo. Sono le parti più dure del racconto, quelle che ti costringono ad abbandonare la lettura dopo poche pagine perché davanti a certe cose bisogna fermarsi e darsi il tempo di pensare. E' come se proseguire la lettura equivalesse ad una mancanza di rispetto.
Il secondo tema è il racconto di sè, della propria esperienza e di "quello che si prova", sono le pagine più diaristiche e sembra quasi che l'autrice le alterni alle altre per creare un contrappunto necessario, un modo per alleggerire il racconto. Ci sono alcune belle immagini ma in generale queste restano le pagine meno coinvolgenti.
Allo stesso modo lo stile si muove su due registri, uno più lirico (spesso un po' troppo ambizioso) ed un altro più libero, quasi colloquiale, come a voler riprodurre il flusso dei propri pensieri.
Purtroppo l'uso insistito di certe espressioni (le "mille colline", ad esempio) impoverisce le descrizioni e dà l'idea di una povertà di idee che certo all'autrice non mancano. Anche le numerose ripetizioni di formule, come se l'autrice fosse sotto ipnosi, lasciano molto a desiderare.
Il terzo tema è quello che mi sarebbe piaciuto veder approfondito meglio e che purtroppo l'autrice lascia solo intuire: il proprio lavoro. Che cosa ci è andata a fare, a distanza di dieci anni, in Rwanda? Di preciso che cosa fa una psicologa in queste situazioni? Forse esiste una sorta di segreto professionale ma in casi come questi non ne vedo proprio la necessità.

sabato 24 ottobre 2009

Jo Nesbo
Nemesi
Piemme 2007

«Io chiedo solo che venga fatta giustizia». Quante volte sentiamo ripetere questa frase dopo un incidente, un'aggressione, un omicidio? Sono i parenti delle vittime a pronunciarla, quegli stessi che qualche mese dopo, alla lettura di una sentenza che non abbia inflitto il massimo della pena all'imputato (o magari lo abbia perfino assolto) gridano ai microfoni che «Questa non è giustizia!».
Nemesi. Vendetta. Questo vuole la società e a questo serve la giustizia. Una vendetta istituzionale che compensa l'uomo dall'impossibilità di farsi giustizia da sè. Ma soprattutto, ed è questo l'aspetto più inquietante, una vendetta che è necessaria in quanto "catarsi", purificazione.
Oslo, due indagini di cronaca, una rapina in banca ed un suicidio. Un commissario, Harry Hole, capace di andare al di là delle apparenze. Ed un unica forza che muove i personaggi come le marionette di un teatrino: la vendetta. Sono questi gli ingredienti principali di "Nemesi", il secondo romanzo di Jo Nesbo tradotto in Italia da Piemme, forse con qualche refuso di troppo.
Il personaggio di Harry Hole non è molto diverso dallo stereotipo dell'investigatore emarginato, solo contro tutti, geniale nelle sue intuizioni, scontroso ma leale... insomma abbastanza prevedibile, eppure c'è qualcosa che lo rende simpatico. Forse è la sua figura allampanata del tutto in contrasto con l'immagine del duro (d'altra parte, un detective norvegese...), forse è la fragilità che si nasconde dietro la facciata, forse anche una certa incoerenza nelle proprie azioni. Anzi, è sicuramente questo l'elemento che meglio descrive il personaggio: alcolizzato che non ha smesso con la bottiglia, amante affettuoso ma capace di tradire, duro poliziotto che, se ricordo bene, non usa mai la violenza. E per questo imprevedibile.
Nesbo costruisce una trama complessa e la sviluppa senza mai perdersi; si muove liberamente nei diversi livelli narrativi alternando la terza persona alla prima, senza schematismi rigidi, a seconda del risultato espressivo che vuole ottenere. Lo stesso vale per i livelli temporali. Emblematico il caso della storia secondaria di due personaggi, forse il momento più divertente
di tutto il romanzo, che si conclude con una fuga in avanti nel tempo per dirci che, dopo qualche anno, i due si sarebbero rincontrati ed avrebbero parlato ancora della loro avventura.
Nesbo si dimostra abile nel tenere viva l'attenzione attraverso espedienti narrativi particolarmente riusciti come le descrizioni dei sogni di Hole, che si fondono con la realtà in un modo ben più straniante di quanto possa avvenire al cinema.
Nel complesso il romanzo è avvincente e ben scritto. Alcuni personaggi non sono ben definiti ma occorre ricordare che si tratta di un sequel, quindi per alcuni aspetti bisogna rifarsi al precedente "Il pettirosso", sempre pubblicato da Piemme. Lo stretto legame con il romanzo precedente (e con quello successivo, come si evince dal finale) è forse la nota negativa di maggior rilievo. A pagina 292 viene descritto brevemente un improbabile tramonto sul mare visto da una spiaggia del Brasile.

lunedì 19 ottobre 2009

Matricole

Cos'è diventata l'università? Iniziano i corsi e si presentano in libreria le matricole a gruppetti o accompagnate dai genitori. Aver trovato da sole il banco informazioni è già una conferma delle loro capacità. Penso al futuro, a quello che mi aspetta. Penso che fra loro si nasconde il medico che mi curerà quando starò male, l'avvocato che mi farà interdire quando sarò vecchio. Li vedo già, hanno già lo sguardo ottuso, vuoto e inconsapevele che avranno all'apice della loro carriera.
La lista dei libri. Quando va bene è una stampata da internet o una fotocopia e via, si prende quello che c'è senza troppe pretese; i migliori hanno scritto al volo la bibliografia dettata dall'insegnante ed ora mi costringono ad esercizi di paleografia. La richiesta è quasi sempre la stessa:
- Volevo sapere quali di questi libri avete in casa.
Oppure, in sintesi:
- Ce li avete questi?
E qui il destino si accanisce contro di te, povera matricola, e ti rendi conto ancora una volta che tutte queste difficoltà servono solo a forgiare il tuo animo, non certo a farti desistere, perché un giorno, guardandoti indietro, anche tu possa dire come tuo padre che no, nessuno ti ha mai regalato niente.
- No, non ce li abbiamo.
No, sai, fra i milioni di titoli che il tuo professore poteva scegliere, ti sono capitati proprio quelli che non abbiamo, sfortunaccia nera. Pensa che di solito li abbiamo tutti. Abbiamo una cantina dove teniamo venti copie di tutti i libri del mondo e li teniamo lì in attesa che venga uno come te a chiederceli. Solo che oggi sono passati in venti, prima di te.
- E allora come faccio?
Esci di qui più in fretta che puoi e vai a rompere le scatole a qualcun'altro. Magari alla libreria universitaria che questi libri li ha di sicuro.
- Beh, li puoi cercare da qualche parte, oppure li puoi ordinare.
Cercarli? Cioè rischiare di buttare una giornata e poi magari non concludere niente? No, no, la tabella di marcia è molto chiara, non cominciamo a restare indietro subito all'inizio. Oggi si comprano i libri, e domani si incomincia a studiare.
- Eh, allora li ordino. Ma ci vuole tanto tempo?
No, caro, non ci vuole tanto tempo. Prendo la prenotazione e intanto guardo rassegnato i libri ordinati da altri studenti prima di te, studenti che come te hanno chiesto se ci voleva tanto tempo e che poi si sono dimenticati di venirli a ritirare e che ormai li avranno trovati da qualche altra parte...
Come siamo arrivati a questo?

domenica 11 ottobre 2009

Today english

È arrivata la telefonata in inglese.
Alzo la cornetta e vengo investito da una raffica di suoni inarticolati, un flusso di qualcosa che so essere lingua inglese ma che sul momento mi coglie del tutto impreparato. Non capisco una parola.
Poco male. Lascio sfogare la cliente e mi preparo al secondo round con un veloce «sorry, can you repeat?». Lo piazzo spavaldo, appena riconosco la pausa prolungata che più o meno vuole dire «ho finito, adesso vediamo come te la cavi». Intanto mi allontano dai colleghi, che non sentano lo scempio che sto preparando.
Il secondo giro sembra stia parlando una persona diversa. Pacata, semplice e chiara. Capisco tutto. Per farla breve: ha mandato un'e-mail con un ordine di libri e non ha ricevuto risposta. Bel problema.
La soluzione migliore in questi casi è sempre quella più facile da tradurre. Nello specifico la cosa si risolve con un bel: «you have to send a new e-mail at this address» seguito da spelling. Facile. Non bello, forse, ma facile. Eppure, incredibile a dirsi, qui mi blocco e, ancor più incredibile, non per colpa mia.
Ci impantaniamo sulla prima lettera dello spelling, la "s".
Io comincio: «ess» e lei capisce «eff». «Not eff, - dico io - ess, like...» e qui, pensando che Savona potrebbe non essere molto conosciuta, appoggio con molta circospezione un «silence» col quale penso di aver risolto, mentre tengo d'occhio in lontananza i colleghi.
Niente da fare. Non capisce. Mi chiede se preferisco parlare spagnolo. Comincio a credere che anche lei non sia messa bene con l'inglese. Forse si era preparata il discorso e niente di più. Comunque non se ne parla nemmeno, penso, adesso ti metti di impegno e scrivi sto benedetto indirizzo. «Ess, ssss, like "silence", like "sound", like...» mi blocco prima di dire un «city» che sarebbe stata la pietra tombale sulla mia autostima.
Ormai è chiaro, non ne usciremo mai.
Sono in preda al panico.
Il capo mi guarda con la sua faccia stanca. Io faccio un veloce riassunto mentale: ho fatto tutto giusto? Mi pare di sì. Quindi parto all'attacco: «Capo, qui c'è una che non capisce niente, è mezz'ora che ripeto "ess" e lei capisce "eff"...».
Dare la colpa al cliente funziona, serve a fare squadra, a cementare il rapporto di fiducia. Uniti contro il nemico. Forza e onore.
Passo il telefono al capo e tiro un sospiro di sollievo quando vedo che anche lui si mette a ripetere «ess, like... "silence"!» ma lui ha più esperienza e meno pazienza, oltre a sapere l'inglese. «Which kind of books? I pass you my colleague».
Non è scaricabarile, lui sa quello che fa, sa quello che dice. Lui è il capo.

giovedì 1 ottobre 2009

Ecco, è andata. Il primo giorno di lavoro più strano che potessi immaginare. Notte insonne per la paura di non sentire la sveglia, alle due avevo già fatto un incubo terrificante.
Il viaggio è quello che è, venti minuti per fare quattro chilometri, altri venti per farne si e no tre, insomma quasi due ore di viaggio per fare poco più di cinquanta chilometri. Poi dicono di usare i mezzi pubblici...
Il ritorno non è migliore: tocco terra alle nove passate, e devo ancora mangiare.
In mezzo quella cosa indescrivibile che è questo lavoro, dominato dal capo che sarà anche un po' fuori di testa come dicono, ma che mi ha già regalato una scena da raccontare.
Entra un cliente e chiede un libro. Si scopre che il libro è esaurito. Io, da vero pivello, avrei preso atto della cosa. Lui chiama il rappresentante e gli fa: parla con l'editore, digli di fare una ristampa di questo libro.
Ecco, queste cose possono succedere solo qui.

martedì 29 settembre 2009

Basta chiedere

Oggi mi sono occupato di cose serie: soldi.
Per prima cosa ho cercato la nuova sede dell'assicurazione con cui ho sottoscritto la pensione integrativa. Qui ho parlato con una ragazza che indossava un reggiseno di brillantini rossi sotto una camicia bianca che si chiudeva a fatica ed era comunque indossata con molta negligenza. Nonostante la sua evidente inesperienza, nel portare abiti così come nel lavoro, ho ottenuto quello che volevo sapere: l'ultimo versamento sul fondo pensione risale a gennaio 2009. Ho chiesto spiegazioni e la risposta è stata: noi non possiamo farci niente, la legge dice che i datori di lavoro devono versare le quote, se non lo fanno ci devi pensare tu, o i sindacati.
Accecato dall'ira sono uscito e sono andato dai capi, cioè dal capo che si occupa di queste faccende.
- Ciao, dimmi tutto.
- Volevo sapere qualcosa del mio stipendio.
- Ho detto a *** di pagarti tutto entro la fine del mese.
- Tutto, anche la quota del TFR?
- Tutto.
- No, perché sai...
- Sì, abbiamo avuto delle difficoltà...
- No, volevo dire che... non vi siete fatti sentire per dei mesi...
- Ma come, io ho parlato con ***, potevi chiedere a lei!
- Sì, ma non è *** il mio datore di lavoro. Sei tu.
- Come sei formale! Io non posso tutte le volte venire a dirvi le cose. Parlo con le persone che vedo e poi queste vi riferiscono!
- Sì ma qui parliamo di qualche mese senza stipendio, forse era il caso...
- Beh, ma se avevi bisogno potevi dircelo, avremmo trovato una soluzione.
- Mah, sai, lo stipendio non è una cosa che devo chiedere come se... va beh, comunque se è tutto a posto io posso andare. Grazie.
Forse, con un po' di prontezza di spirito avrei anche potuto far notare che la fine del mese è domani. D'altra parte oggi mi sono reso conto che in situazioni di particolare tensione il mio corpo reagisce con un terrificante calo di voce: sono uscito per strada che ero quasi afono.

lunedì 28 settembre 2009

Pochi, maledetti e subito?

Che grande invenzione che è l'Home Banking! Puoi ricaricare il telefono senza muoverti da casa, fare i bonifici, gestire i titoli...
Io, ad esempio, controllo da quanto tempo i miei ex datori di lavoro non mi pagano lo stipendio.
A metà aprile mi hanno dato gli stipendi di gennaio e febbraio.
A luglio mi hanno dato gli stipendi di marzo e aprile.
Fine.
Io so bene che ci sono delle difficoltà, ma ho lavorato lì per tre anni, e i soldi in cassa c'erano, non molti ma c'erano. Che fine hanno fatto? Possibile che in questa "azienda" l'ultima cosa a cui si pensa sia pagare i dipendenti?
Ultima domanda: quanto tempo riuscirò a resistere ancora prima di fare nomi e cognomi di questa squadra di incapaci?

sabato 26 settembre 2009

Alberto Cavanna
Da bosco e da riviera
Rizzoli 2009

Il protagonista di questo romanzo si chiama Pietro ed è figlio di un costruttore di navi. La sua vita e quella della sua famiglia sono scandite dai ritmi imposti dal lavoro: ogni anno il padre di Pietro costruisce una nave, solo una, seguendo procedimenti che sono il risultato di anni, forse secoli di esperienze che si sono sedimentate, come un patrimonio genetico che si tramanda ad ogni generazione.
Questo mondo, fatto di contratti conclusi con una stretta di mano, è destinato a soccombere sotto i colpi della modernità. Per la famiglia di Pietro il momento cruciale è la costruzione di una grossa barca, la più grossa che in quel piccolo cantiere fosse mai stata costruita. L'armatore cerca di convincere il padre di Pietro a riorganizzare il lavoro per renderlo più efficiente anche a costo di infrangere quelle regole che da sempre lui aveva seguito. Inizialmente il vecchio rifiuta ma alla fine, resosi conto dell'inevitabilità del cambiamento, si ritira e lascia il cantiere nelle mani di Pietro.
Il giovane si fida dell'armatore, costruisce tre barche contemporaneamente per ottimizzare le spese ed aumentare i guadagni. Quando si rende conto che l'armatore punta solo ad impossessarsi del cantiere è ormai troppo tardi. Il cantiere fallisce, il padre muore e Pietro, come in cerca di espiazione, inizia a lavorare nei doppifondi delle navi da trasporto come saldatore. Dal legno al ferro. Dopo tre anni di questa vita massacrante prende la decisione di partire. Lavora prima a bordo delle navi che fanno il loro ultimo viaggio verso i cantieri di demolizione, poi in un cantiere inglese dove restaura vecchie barche per ricchi collezionisti.
Inizia una lenta risalita che è anche un ritorno al passato, un inesorabile riavvicinamento al mondo dal quale proviene. Finché decide di tornare veramente al suo paese natale, ricompra la barca che era stata di suo padre e con questa parte, senza una meta.
Alla sua storia si intreccia quella di Maddalena, bella ragazza di provincia che decide di sfruttare le armi femminili per raggiungere il successo. Il suo personaggio segue uno sviluppo lineare, se di sviluppo si può parlare: coerente dall'inizio alla fine, quasi prevedibile nelle sue mosse e fondamentalmente privo di spessore.
Terzo ed ultimo protagonista del romanzo è il coro, una voce narrante che racconta piccole storie di paese e indirettamente un bel pezzo di storia italiana. Le particolari scelte linguistiche che l'autore utilizza per definire questo personaggio (uso della prima persona plurale, di termini dialettali, di un periodare spesso molto vicino alla lingua parlata) ne fanno una presenza leggera, spesso ironica, ma tutto sommato un po' slegata dalla vicenda di Pietro ed in più di un'occasione eccessivamente prolissa.
Il racconto delle vicende di Pietro è sicuramente il perno intorno a cui ruota il romanzo, la parte più sviluppata e forse anche la meglio riuscita dal punto di vista narrativo. Non a caso il suo personaggio è sicuramente quello meglio riuscito, anche se ho trovato inutile l'insistenza con cui ci viene ricordata la sua passione per la lettura. Lo stereotipo dell'operaio colto che fa un lavoro umile ma che ha una grande cultura non solo non rende giustizia all'operaio ed alla dignità del suo lavoro ma rende inverosimile un personaggio che per il resto sembra ben costruito tanto nelle sue caratteristiche quanto nel suo sviluppo.
Si respira l'aria di Aci Trezza soprattutto nella prima parte di questo romanzo riuscito a metà.

venerdì 25 settembre 2009

Il veccho Asus P525 ed un suo piccolo problema

Manca meno di una settimana all'inizio del nuovo lavoro. Passo il tempo cercando di organizzarmi in modo da sfruttare al meglio il tempo del viaggio e quello che mi rimarrà una volta arrivato a casa, anche se conoscendomi il tutto si risolverà in un abbiocco mattutino, uno serale ed il giusto riposo del guerriero dopo cena (cioè verso le 22.00).
Mio fedele compagno in questa nuova avventura sarà il vecchio Asus P525 che da qualche anno mi segue ovunque. Inizialmente ero scettico sull'utilità di un affare come questo. Prima facevo parte di quegli snob che dicevano che un telefono serve per telefonare; oggi non potrei fare a meno di un palmare. Foto, musica e soprattutto la possibilità di prendere appunti in qualsiasi momento. E poi, se serve, persino telefonare. Tutto in un affare che è poco più ingombrante del mio portafogli (ma messo molto meglio, del portafogli, intendo).Il vecchio P525 viaggia su Windows Mobile 5 e devo essere onesto: non mi ha mai dato problemi. L'unico momento drammatico l'ho vissuto un paio d'anni fa, quando improvvisamente il telefono ha smesso di emettere suoni. In pratica: il telefono non squillava più e tutte le chiamate andavano a farsi benedire. Anche le chiamate che facevo io, dato che all'altro capo dell'apparecchio non si sentiva niente di quello che dicevo. Se infilavo le cuffie, partivano i comandi vocali (muti), e lo stesso quando le toglievo.
Ho cercato su Google, fatto tentativi, formattato. Niente. Poi improvvisamente la soluzione.
Il problema era stato determinato dalla rimozione delle cuffie. Questa operazione deve avvenire in modo deciso, senza esitazioni, altrimenti il P525 pensa che le cuffie siano ancora inserite (anche se sono state tolte) e si comporta di conseguenza. La soluzione empirica è di "fingere" di infilare le cuffie, ovvero di infilare solo la parte iniziale del jack e di rimuoverla subito, riproducendo quell'esitazione con cui le cuffie erano state tolte la prima volta. Il P525 penserà che le cuffie, che lui crede essere ancora inserite, siano ora state finalmente tolte.

mercoledì 23 settembre 2009

Un modo ecologico (e italiano) di fare ricerche su internet

Mentre ero impegnato in una ricerca di cui darò conto fra un po', mi sono imbattuto in un sito che ho deciso di segnalare immediatamente. Si tratta di Blackr e per essere il più chiaro possibile, cito testualmente:
Blackr.it vi invita ad usare una pagina di ricerca con fondo nero per ridurre lo stress visivo e risparmiare migliaia di watt mentre effettuate le vostre abituali ricerche. Il motore di ricerca è stato creato con Google Co-Op in una nuova veste nera. Tutte le ricerche di questo portale vi porteranno a visualizzare i risultati con fondo nero e testo grigio chiaro. Blackr non ha alcun legame con Google, è un'iniziativa italiana per il risparmio energetico.
Riflettendoci è ovvio, eppure non avevo mai pensato a questo risvolto energetico dell'uso del bianco. Ora che lo so, sulla mia barra di ricerca ci sarà solo Blackr. Tanto più che i risultati delle ricerche sono identici a quelli di Google!Tuttavia mi domando: perché non usare un nome italiano, visto che l'idea è nostra? Mi si risponderà: per dare un respiro internazionale al progetto, per non essere i soliti provinciali. Sarà, ma ho appena letto un articolo sulla nuova Alfa Romeo che verrà prodotta in America e che si chiamerà "Milano" (ma da noi la stessa auto si chiamerà 149) mentre la Ferrari chiama "Italia" il suo ultimo modello. "Italia", non "Italy".
I piccoli non sempre capiscono quando è il momento di imparare qualcosa dai grandi.

lunedì 21 settembre 2009

Sono come un bambino. Solo che invece di comprare l'astuccio e i quaderni io preparo scarpe comode e contenitori per il pranzo. Il mio palmare ormai è quasi pronto, anche il pc di casa è stato riorganizzato per le nuove esigenze. Questa settimana sarà dedicata alla pianificazione del viaggio: orari dei mezzi e abbonamenti.
La vita del pendolare non fa per me. Oggi faccio molti buoni propositi (leggere durante il viaggio, preparare i post da inserire nel blog, magari addirittura guardarmi qualche programma registrato sul telefonino e perché no, studiare un po' di inglese) ma andrà a finire come sempre: abbiocco immediato e sveglia al capolinea.
Incomincio ad essere emozionato per l'inizio del nuovo lavoro, che poi in realtà non è che un ritorno a casa. Non ho grandi aspettative, spero solo di non fare disastri. Molte cose sono cambiate nel nuovo negozio e questo gioca a mio favore: dovrò ripartire quasi da zero!
Il vecchio negozio sta affondando. So che daranno la colpa a me e quello che più mi dispiace è proprio il fatto che non ci sia nessuno là dentro in grado di capire la quantità (e la qualità) del lavoro da me fatto in questi anni. Non credo di essere presuntuoso: sono (anche) un insegnante e saper valutare il mio lavoro e quello degli altri fa parte del mestiere. Sono convinto che il tempo mi farà giustizia.

domenica 20 settembre 2009

Sapevo che sarebbe andato tutto allo sfascio, ma non immaginavo fino a questo punto e in così poco tempo!
Ieri era l'ultimo giorno ufficiale del mio contratto, anche se ero in ferie già da un po'. Ho aspettato fino all'ultimo giorno a consegnare le chiavi del negozio un po' per vedere se qualcuno aveva il coraggio di farsi sentire, un po' per avere la scusa per tornare a vedere la situazione. Beh, sono entrato e non credevo ai miei occhi.
Prima di andarmene avevo preparato le rese più grosse, messo i libri negli scatoloni (erano solo da chiudere e portare, c'era già anche l'autorizzazione) ed avevo finito di sistemare gli scaffali di varia lasciando un bel po' di spazio in previsione dell'arrivo delle novità autunnali. Sapevo che le mie colleghe non avrebbero avuto il tempo e la voglia di fare il lavoro per bene (ordine alfabetico, spostare i libri quando serve...) ma che avrebbero preso e sbattuto a scaffale senza grande criterio. Così ho pensato di facilitare loro il compito lasciando lo spazio necessario.
In mia assenza si è presentato il capo. Ha visto gli spazi vuoti e dall'alto della sua competenza ha sentenziato: gli scaffali così vuoti non stanno bene.
La nuova arrivata, quella che ha preso il mio posto, aveva lavorato in negozio quest'inverno e mi era sembrata sì intraprendente ma anche tremendamente incapace, quindi potenzialmente molto pericolosa se lasciata libera di agire. Tuttavia mi sbagliavo.
La ragazza si è dimostrata tutt'altro che intraprendente. Nel tentativo di correggere quello che a tutti sarà apparso come un mio errore estetico, ha seguito alla lettera le indicazioni del capo: ha spostato tutti i libri in modo da riempire per bene gli spazi negli scaffali e sui ripiani rimasti vuoti ha sistemato i catechismi. Brava. Ci volevi tu per mettere le cose a posto.
Quando la nuova arrivata si accorgerà che gli scatoloni che si stanno accumulando sono pieni di libri da esporre se ne uscirà sicuramente con la frase che in tanti hanno pronunciato prima di lei per giustificare le loro mancanze: «Ci vorrebbe più spazio». Eh già. Perché non ne usiamo un po' di quello che c'è nella tua scatola cranica?
Ma io non ce l'ho con le donne. Anzi, sono convinto che le donne abbiano capacità che noi uomini non avremo mai, come ad esempio quella di leggere le parole a testa in giù. Deve essere il risultato di qualche lungo processo di evoluzione. Non so a cosa possa loro servire ma non mi spiego altrimenti perché sia le mie due vecchie colleghe, che potevano aver ereditato questo modo di fare da esperienze precedenti, sia la nuova arrivata, che ce l'ha di suo, riescano a posizionare sistematicamente i libri con le scritte al contrario. Ne ho avuto conferma anche ieri, quando mi sono accorto che tutti i catechismi sono esposti al contrario.
E fosse solo per i catechismi! Una delle mie più brucianti sconfitte è stata quella per il raddrizzamento dei fogli delle prenotazioni.
La procedura prevedeva di stampare le prenotazioni, tagliare a strisce il foglio con le prenotazioni in modo che ogni striscia corrispondesse ad un cliente ed infine infilare il foglietto nel libro prenotato. E qui il meccanismo si inceppava. Il foglietto infatti, infilato nella parte alta del libro, risultava illeggibile quando i libri venivano impilati uno sopra l'altro. L'unica soluzione era di girare i libri al contrario. Stesso problema quando i libri venivano appoggiati al muro (come nel caso dei libri scolastici). Bisognava scegliere: o i foglietti finivano contro il muro (illeggibili), oppure tutti i libri andavano messi al contrario. Naturalmente era prassi seguire questa seconda strada.
La mia proposta di risolvere la situazione infilando il foglietto nella parte bassa del libro è sempre stata ritenuta troppo complicata e comunque inutile e forse dannosa.

martedì 15 settembre 2009

J.M.G. Le Clézio
Il ritornello della fame
Rizzoli 2009

Il romanzo ha inizio e si chiude in prima persona (l'io narrante è l'autore stesso) mentre la parte centrale è svolta in terza persona; il narratore abbraccia quasi esclusivamente il punto di vista di Ethel Brun, la giovane protagonista «figlia unica di una famiglia in guerra, tra le mura di una casa in pericolo». Questa frase riassume molto bene se non tutta la vicenda almeno l'atmosfera che si respira dalla prima all'ultima pagina e non a caso è citata anche nella quarta di copertina.
Esiste ed è ben chiara una frattura fra il modo in cui la famiglia di Ethel cerca di apparire e la realtà. Il padre di Ethel sta dilapidando il patrimonio familiare con una serie di investimenti sconsiderati ma è incapace di accettare la sua condizione di fallito e cerca continue giustificazioni alle sue sconfitte. La madre rimane in disparte, preoccupata solo di mantenere una pace familiare che è solo apparenza ma che le è necessaria per non affrontare il nodo irrisolto del rapporto con suo marito. I due coniugi sono infatti divisi da un episodio del passato, un tradimento del padre di Ethel con una cantante che ha lasciato una ferita aperta nel loro matrimonio.
Fanno da contorno a questa famiglia, parigina ma di origini mauriziane, normale solo in apparenza, gli ospiti che si ritrovano ogni prima domenica del mese nel salotto di casa Brun. Un rito che si ripete sempre uguale a se stesso, un teatrino al quale Ethel assiste annoiata, rimanendo in disparte per tutto il tempo. Annota su un taccuino le frasi che sente, affascinata dalla loro assurdità e le pagine del romanzo, in questi momenti, assumono proprio una forma teatrale, semplici trascrizioni dei dialoghi da salotto di questi incontri mondani. Non c'è bisogno di commento, sembra voler dire l'autore.
Ethel, di questa commedia, non vuole far parte. Osserva e capisce tutto, nonostante che i genitori si illudano del contrario. Capisce che tra loro è in atto una guerra, anche se forse non ne comprende le ragioni; capisce che gli ospiti di casa Brun sono persone dalle quali stare alla larga; si rende conto, col tempo, che il padre sta portando la famiglia alla rovina.
L'infanzia felice di Ethel è fuori dalle mura di questa casa. È nell'amicizia con Xenia, una coetanea discendente di una famiglia russa decaduta e della quale Ethel subisce il fascino; è negli incontri con il signor Soliman, un parente che la accoglie in una vecchia abitazione in un quartiere periferico di Parigi, dove Ethel dà libero sfogo alla sua fantasia di bambina.
La contraddizione fra i due ambienti nei quali vive la protagonista, ovattato e falso quello familiare, ugualmente irreale ma ricco di stimoli quello "esterno", è destinata prima o poi ad emergere. Ed è proprio nel momento in cui questi due mondi si incontrano che l'infanzia di Ethel si interrompe ed ha inizio la caduta di tutta la famiglia.
In un estremo tentativo di speculazione il padre di Ethel si fa intestare il terreno su cui sorge la "casa color malva" del signor Soliman, terreno che il vecchio le aveva lasciato in eredità alla sua morte. La costruzione di un palazzo su questo terreno coincide però con l'inizio della crisi economica causato dalla guerra. A questo si aggiunge un incidente che lascia invalido il padre di Ethel. In breve la famiglia Brun si ritrova strangolata dai debiti e costretta a vendere tutto.
A questo punto alla tragedia familiare si sovrappone la tragedia della storia: da Parigi la famiglia di Ethel fugge a Nizza, tra gli sfollati. Il trasferimento rappresenta così l'abbandono di ogni residuo di ipocrisia, la presa di coscienza della propria condizione di povertà, ma segna anche la definitiva emancipazione di Ethel, il punto di arrivo di un processo di maturazione iniziato a Parigi, nel momento in cui si rende conto che il palazzo voluto dal padre porta con sè la distruzione della "casa color malva". La vista del vuoto fisico del terreno provoca anche un vuoto dell'anima, un'assenza dolorosa ma necessaria, lo spazio nero dove costruire la propria vita, l'abbandono dei sogni dell'infanzia per entrare pienamente nel mondo degli adulti. Ethel, ancora giovanissima, si assume coraggiosamente la responsabilità di guidare la famiglia. Assistiamo così ai sopralluoghi sul cantiere del palazzo, al tentativo di salvare almeno la casa dal fallimento, alla decisione improvvisa di lasciare Parigi.
Il momento culminante di questo processo è l'incontro di Ethel con Maude, la cantante amata in passato dal padre ed oggi ridotta a cercare il cibo tra gli scarti del mercato di Nizza. Ethel inizia a farle visita nella povera casa in cui vive, le porta qualcosa da mangiare e sembra provare un sincero sentimento di pietà nei suoi confronti. È forse questo il momento più commovente del libro, quello in cui grazie a Ethel la famiglia Brun sembra riscattarsi moralmente. E forse non è un caso che proprio da questo momento inizi anche la risalita economica e sociale che si conclude con la fine della guerra.
Morto il padre, da tempo chiuso nei suoi pensieri come in una sorta di purificatrice demenza senile, Ethel saluta la madre che rimane a Nizza, in attesa della morte. Il suo futuro è altrove.
* * *
Dato che lo scrittore ha vinto il Nobel, non ero particolarmente fiducioso. L'ho letto seguendo un "quasi consiglio" dell'agente Rizzoli e dopo averne valutato le dimensioni accettabili.
La vicenda in sé non ha nulla di straordinario e non è per nulla avvincente. Rimangono però nella memoria i ritratti dei tre protagonisti, i membri della famiglia Brun, che si costruiscono poco a poco, attraverso le vicende narrate. In particolare i dialoghi di Ethel sono spesso sorprendenti. È come se il suo processo di maturazione ci venisse nascosto per apparire improvvisamente come un lampo. Una frase, una risposta, un pensiero nascosto e quasi viene da pensare: Ethel, cosa ti sta succedendo?
Questo modo di costruire, più che di descrivere il personaggio, fa sì che nemmeno alla fine del racconto si riesca ad avere un'immagine definitiva della protagonista: il suo carattere è in continua evoluzione sotto la spinta di una "fame di vivere" che non sembra essersi esaurita quando termina il romanzo.
Lo sviluppo degli altri due personaggi è più lineare, in qualche modo prevedibile ma non per questo meno riuscito. Il padre suscita solo compassione per la sua inettitudine, anche quando arriva a sottrarre l'eredità della figlia per gettarla in pasto agli speculatori. Non c'è una sola pagina in tutto il romanzo in cui si ha l'impressione che da questo personaggio possa venire qualcosa di buono. La madre sembra l'unica persona a provare per lui un po' di affetto sincero.
Il personaggio di Xenia è avvolto da un alone di mistero ed è quello con il carattere meno definito. Esce di scena quasi improvvisamente a metà del racconto perché il suo ruolo è legato all'infanzia di Ethel. Le due amiche inseparabili prendono due strade diverse e quando si incontrano nuovamente Ethel si sente a disagio: non si può tornare indietro.
Questo non è il mio primo blog. Forse è per questo che non ho più nessuna voglia di scrivere la solita lunga introduzione per spiegare chi sono e quali dei miei problemi penso di risolvere attraverso questo blog.
Parlerò del mio lavoro e di quello che ci gira intorno, lo farò quando ne avrò voglia e se ne avrò il tempo.
Non ho ambizioni da scrittore, anzi posso dire che la scrittura non è mai stata il mio forte nemmeno quando facevo i temi alle superiori. Risultare comprensibile a persone diverse da quelle che sono con me adesso in questa stanza mi costerà dunque un certo sforzo: pretendo il rispetto che si deve al quarto classificato, quello che ci prova senza riuscirci.
Spero che a nessuno venga in mente di copiare i contenuti di questo blog e spacciarli come farina del suo sacco senza avermi almeno avvertito. Tanto più che in giro c'è di meglio, basta cercare.
Per il resto fate un po' come volete.