Premessa necessaria: si giudica il libro e non l'argomento.
Altra premessa: difficilmente avrei letto un libro del genere (soprattutto durante l'assonnato viaggio mattutino in pullman) se non avessi contratto un obbligo morale verso il senegalese che me l'ha venduto per strada.
Fine delle premesse. Passiamo al libro.
Si tratta del diario dell'autrice scritto durante i suoi due anni di permanenza in Rwanda come operatrice di Medici Senza Frontiere.
I temi che si intrecciano sono tre. Il primo è il racconto di quello che è successo. Sono le parti più dure del racconto, quelle che ti costringono ad abbandonare la lettura dopo poche pagine perché davanti a certe cose bisogna fermarsi e darsi il tempo di pensare. E' come se proseguire la lettura equivalesse ad una mancanza di rispetto.
Il secondo tema è il racconto di sè, della propria esperienza e di "quello che si prova", sono le pagine più diaristiche e sembra quasi che l'autrice le alterni alle altre per creare un contrappunto necessario, un modo per alleggerire il racconto. Ci sono alcune belle immagini ma in generale queste restano le pagine meno coinvolgenti.
Allo stesso modo lo stile si muove su due registri, uno più lirico (spesso un po' troppo ambizioso) ed un altro più libero, quasi colloquiale, come a voler riprodurre il flusso dei propri pensieri.
Purtroppo l'uso insistito di certe espressioni (le "mille colline", ad esempio) impoverisce le descrizioni e dà l'idea di una povertà di idee che certo all'autrice non mancano. Anche le numerose ripetizioni di formule, come se l'autrice fosse sotto ipnosi, lasciano molto a desiderare.
Il terzo tema è quello che mi sarebbe piaciuto veder approfondito meglio e che purtroppo l'autrice lascia solo intuire: il proprio lavoro. Che cosa ci è andata a fare, a distanza di dieci anni, in Rwanda? Di preciso che cosa fa una psicologa in queste situazioni? Forse esiste una sorta di segreto professionale ma in casi come questi non ne vedo proprio la necessità.
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