Quando il capo ha visto questo libro, dopo aver millantato di averlo conosciuto, ha concluso: «De Gregori non la prenderà bene» ma io non gli ho dato retta. Invece anche stavolta il capo aveva ragione.
È un peccato che un libro dall'argomento così interessante sia stato confezionato con tanta approssimazione.
Questa collana dell'Ancora mi è sempre piaciuta molto per la sua unicità nel panorama editoriale e forse è per questo che la lettura di questo libro mi ha così deluso.
Non mi riferisco solo ai refusi, che tutto sommato sono nella media, ma soprattutto alle imprecisioni nelle citazioni di canzoni che i fan di De Gregori conoscono a memoria. Per averne un esempio basta leggere i versi de "La donna cannone" sulla quarta di copertina.
Sono indeciso. Si tratta, a mio parere, di errori redazionali più che di scarsa preparazione dell'autore, come dimostra l'errore madornale nel titolo dell'album "Amore nel pomeriggio" circa a metà del libro, citato correttamente poche pagine prima.
Tuttavia potrebbe anche trattarsi di uno stratagemma per non pagare i diritti d'autore che proteggono i testi, ed in questo caso De Gregori farebbe bene ad arrabbiarsi, e non per i soldi ma per i futili motivi del delitto. Lo stesso autore si preoccupa di spiegare che i testi delle canzoni non vengono citati per intero proprio per questo motivo.
Comunque anche l'autore ci mette del suo, ripetendosi in più di un'occasione, come quando spiega che il primo capitolo è praticamente copiato da un suo saggio precedente.
Quanto all'analisi vera e propria, sembra tutto un po' eccessivo, a partire dal continuo ricorso alle citazioni dei versi che dovrebbero sostenere le tesi dell'autore.
In linea generale è evidente la presenza nei testi di un substrato culturale che si rifà alla tradizione cristiana ma questa evidenza non necessita di una dimostrazione, quanto piuttosto di una spiegazione. Perché ad esempio non sottolineare che la Bibbia e i Vangeli fanno parte di un patrimonio culturale condiviso degli Italiani e l'uso che De Gregori ne fa ha quasi sempre una funzione provocatoria e straniante? Pensiamo alla preghiera dei bambini davanti al Presepe, «Gesù bambino, fa che venga la pace» e che in De Gregori diventa «fa che venga la guerra».
Il problema non è che in De Gregori ci siano i richiami al Vangelo; il problema è che De Gregori questi richiami non li usa per comunicare i valori del Vangelo ma li svuota del loro significato "letterale" e li usa, al pari di espressioni prese da contesti diversi, come mattonelle per costruire nuovi significati. Decontestualizzando le immagini sacre si crea una sovrapposizione di significati che "apre" l'opera.
Mi sarebbe piaciuto che l'autore avesse affrontato questo tipo di analisi invece di limitarsi ad un elenco di corrispondenze.
Certo, alcune letture sono suggestive, soprattutto quella de "La Donna cannone" e di "Ninetto e la colonia" (ma sono anche originali?) ed alla fine rimane il sospetto che ci sia veramente «qualcosa che brucia in tutto questo fumo». Però non posso fare a meno di pensare che un lavoro del genere l'avrei potuto fare anch'io, e forse sarebbe anche venuto meglio.
Come se non bastasse, viene ampiamente citato un saggio di Roberto Vecchioni che, per quel poco che se ne può capire, è di ben altro spessore. Peccato sia solo una dispensa universitaria.
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