sabato 21 luglio 2012

L'editore dei sogni

Tempo fa ho letto un libro che parlava della Milano della prima metà del Novecento. In questo libro veniva trascritto un brano di Orio Vergani che descriveva, attraverso il ritratto dell'editore ideale, le illusioni di un giovane scrittore. Dato che oggi il mondo editoriale sta cambiando rapidamente e qualcuno ipotizza la prossima estinzione degli editori a vantaggio del self-publishing, ho pensato di riportare questa divertente testimonianza. Facciamo un salto indietro nel tempo.
Quando Carlo Bruffara ha scritto un numero di pagine che, ad occhio e croce, possono bastare per riempire un volume, è naturale che cerchi un editore. L'autore, per essere un vero autore, dev'essere stampato. Non avrete mai sentito parlare infatti di un «autore di pregevoli manoscritti».
Chi stampa i libri? Il tipografo. E chi invita il tipografo a stampare e lo paga? L'editore. Esistono anche degli «editori tipografi» e delle «librerie editrici». Ma quelli e queste stampano sì, ma a pagamento. Il giovine letterato cerca invece, di solito, l'editore che paghi lui oltre che le spese di stampa.
L'editore è subito trovato. Si apre la guida Savallo. Ecco qua. Basta scorrerla con l'occhio: Tal... Tonc... Tr... Ecco! Treves, via Palermo 12.
L'editore è subito trovato. Si annota l'indirizzo sul taccuino, si prende il tram, si arriva dinanzi allo stabile dove ha la sua sede la Casa Editrice.
«Scusi, c'è il commendatore...? (i puntini rappresentano il nome dell'editore).»
«No, il commendatore non c'è.»
Come vedete l'editore è subito trovato.
Del resto meglio che non ci sia. Pensateci bene.
Essere subito fatti passare in uno studio elegante e severo (tutti gli studi sono eleganti e severi) e trovarsi di fronte l'editore, seduto dietro una scrivania in una poltrona americana, l'aria pacifica e una bacchettina che fa girar tra le dita.
«Buon giorno!» «Buon giorno. Si accomodi. Dica!»
«Buon giorno. Si accomodi. Dica!» Io ho sempre pensato con raccapriccio cosa domani risponderei ad un editore il quale mi dicesse: «Buon giorno. Si accomodi. Dica!»
Perché bisogna prima di tutto stabilire da quale punto di vista si deve considerare l’editore. È un uomo d’affari o un mecenate? Se è un uomo d’affari il colloquio comincerebbe pressappoco in questo modo:
«Ecco. Sono venuto a proporle un affare.»
«Dica.»
«Vuol pubblicare un mio libro?»
«Un libro? Suo? »
«Si, mio.»
Silenzio assoluto. Silenzio assoluto ancora.
Immaginate che a questo punto l’editore vi chieda:
«E, scusi, perché crede lei che per me sarebbe un affare pubblicare il suo libro?»
Cosa rispondere? Perché è un «bel libro»? perché è «interessante»? perché «se ne sente la necessità»? perché «colmerà una lacuna»?
No. Io, per conto mio, do perfettamente ragione all’editore. Come uomo d’affari egli dovrebbe scartare dalle sue attività tutte quelle che concernono l’industria libraria. Non fare l’editore. Dunque, nel caso del giovane autore egli è un mecenate, un mecenate avveduto. Stampare il primo libro di uno scrittore è un rischio terribile.
Perché tutto è qui. Gli editori diffidano terribilmente, e non hanno torto, del primo libro di uno scrittore. Vorrebbero sempre che il primo lo stampasse un altro: quel famoso altro irreperibile. In questo caso, per l’autore e per l’editore, non ci sarebbe che una soluzione. Cominciare dal secondo libro, così come sarebbe conveniente, per evitare i rischi della prima rappresentazione, cominciare a recitare le commedie dalla prima replica.
Supponiamo dunque che l’editore sia un mecenate.
Eccoci davanti a lui. Studio elegante e severo, qua e là, in preziose bacheche, gli autografi più importanti delle opere pubblicate dalla casa. Alle pareti i ritratti degli scrittori beneficati. In un angolo una cassaforte aperta, piena di biglietti da mille. Un bassorilievo con le nove Muse. Una statua di Apollo. Su una sedia, alcune corone di lauro, pronte, per i poeti che vengono a far visita.
«Buon giorno.»
«Buon giorno caro signore.»
Così dovrebbe parlare l’editore mecenate. «Lei ha scritto un libro. Come faccio a saperlo? Ma se glielo si legge in faccia, simpaticone! Dunque: un libro, un bel libro. Bravo! Qua il manoscritto (consegna del manoscritto). Olà, bello! Come si intitola? Ah... ottimo, ottimo! Quello che ci vuole per me, per lei, per il pubblico, per la letteratura italiana. Che bella calligrafia. Dunque, senta! Anzi, se permette, ci possiamo dare del tu. Permetti?»
«Figurati.»
«Grazie, caro! Dicevamo dunque... tremila? Sì, cinquemila copie. Ti pare che bastino? In caso teniamo la composizione, per una immediata ristampa.»
«Credi necessario?»
«Se lo credo? Come alla luce dei miei occhi. Mando subito l’originale in tipografia. I versi! I versi sono la mia passione. Non ti dico poi il mio debole per i settenari. Ah, un momento. Quanto vuoi?»
«Oh! Fai tu!»
«Senti, cinquemila copie a quattro lire fanno ventimila lire. Prezzo di vendita otto lire. Ai librai sei. Cinquemila copie vendute a sei lire fanno trentamila lire: meno le ventimila di spese, restano diecimila di guadagno. Eccoti diecimila lire. No, non far complimenti.»
«Grazie. Ma... E per te?»
«T’immagini! A cosa pensi! Ma è per l’Arte! l’Arte! Del resto, ecco, per il disturbo mi pagherai il caffè! Sei contento?»
Si manda a prendere il caffè. In attesa si chiama il direttore della tipografia.
«Guardi qui, Marinoni. Ecco del lavoro per lei. A proposito, permettete che vi presenti. Il poeta... una delle nuove colonne della nostra casa, il signor Marinoni. Dicevamo dunque: ecco qui il manoscritto. Carta a mano, caratteri nuovi, copertina di lusso. Cinquemila copie. Siamo intesi? E, mi raccomando, eh! rapidità, rapidità!»
«Non dubiti.»
«Quando posso passare per correggere le bozze?»
«Passare? Ma te le manderemo a casa! Non ti preoccupare.»
Intanto arriva il caffè. Lo si sorbisce lentamente parlando di arte e di celebrità. Siccome è inteso che il caffè lo paga l’autore, questi si rivolge al commesso che lo ha portato e gli porge un biglietto da mille.
«Cosa fai? Ma sei impazzito. Non hai moneta?»
«No, caro.»
«E allora lascia fare. Cambiar mille lire per due caffè! Pago io! Pago io anche il caffè! E adesso, caro, senza complimenti. Tra amici, sai, non si fanno. Ho da lavorare. Torna quando vuoi. Non farti nemmeno annunciare. Ciao, caro!»
Il giovine autore è in strada, tenendo ben stretto il braccio contro il portafoglio. Sente, improvvisa, una finestra schiudersi. È l’editore, che si sbraccia e lo chiama.
«Scusa, sai! Ma mi ero dimenticato una cosa.»
«Di’.»
«Portami una tua fotografia! Ci tengo tanto! Mi raccomando! Arrivederci! e...» qui c’è un sorriso di modestia... «scusa, sai, ma la voglio con una bella dedica!»
Questo l'editore dei sogni di Carlo Bruffara. Peccato che non ci sia il suo nome nella guida Savallo.

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