domenica 11 ottobre 2009

Today english

È arrivata la telefonata in inglese.
Alzo la cornetta e vengo investito da una raffica di suoni inarticolati, un flusso di qualcosa che so essere lingua inglese ma che sul momento mi coglie del tutto impreparato. Non capisco una parola.
Poco male. Lascio sfogare la cliente e mi preparo al secondo round con un veloce «sorry, can you repeat?». Lo piazzo spavaldo, appena riconosco la pausa prolungata che più o meno vuole dire «ho finito, adesso vediamo come te la cavi». Intanto mi allontano dai colleghi, che non sentano lo scempio che sto preparando.
Il secondo giro sembra stia parlando una persona diversa. Pacata, semplice e chiara. Capisco tutto. Per farla breve: ha mandato un'e-mail con un ordine di libri e non ha ricevuto risposta. Bel problema.
La soluzione migliore in questi casi è sempre quella più facile da tradurre. Nello specifico la cosa si risolve con un bel: «you have to send a new e-mail at this address» seguito da spelling. Facile. Non bello, forse, ma facile. Eppure, incredibile a dirsi, qui mi blocco e, ancor più incredibile, non per colpa mia.
Ci impantaniamo sulla prima lettera dello spelling, la "s".
Io comincio: «ess» e lei capisce «eff». «Not eff, - dico io - ess, like...» e qui, pensando che Savona potrebbe non essere molto conosciuta, appoggio con molta circospezione un «silence» col quale penso di aver risolto, mentre tengo d'occhio in lontananza i colleghi.
Niente da fare. Non capisce. Mi chiede se preferisco parlare spagnolo. Comincio a credere che anche lei non sia messa bene con l'inglese. Forse si era preparata il discorso e niente di più. Comunque non se ne parla nemmeno, penso, adesso ti metti di impegno e scrivi sto benedetto indirizzo. «Ess, ssss, like "silence", like "sound", like...» mi blocco prima di dire un «city» che sarebbe stata la pietra tombale sulla mia autostima.
Ormai è chiaro, non ne usciremo mai.
Sono in preda al panico.
Il capo mi guarda con la sua faccia stanca. Io faccio un veloce riassunto mentale: ho fatto tutto giusto? Mi pare di sì. Quindi parto all'attacco: «Capo, qui c'è una che non capisce niente, è mezz'ora che ripeto "ess" e lei capisce "eff"...».
Dare la colpa al cliente funziona, serve a fare squadra, a cementare il rapporto di fiducia. Uniti contro il nemico. Forza e onore.
Passo il telefono al capo e tiro un sospiro di sollievo quando vedo che anche lui si mette a ripetere «ess, like... "silence"!» ma lui ha più esperienza e meno pazienza, oltre a sapere l'inglese. «Which kind of books? I pass you my colleague».
Non è scaricabarile, lui sa quello che fa, sa quello che dice. Lui è il capo.

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